Il capitolo sul movimentismo americano, un capitolo sempre attuale, prosegue con la saga dei membri di Black Lives Matter, che però sta evolvendo in qualcosa a cui non eravamo ancora o del tutto abituati.

La protesta portata avanti dopo il caso della morte di George Floyd sta montando. Altre nazioni, oltre agli Stati Uniti d’America, hanno assistito alla comparsa tra le strade di persone che si richiamano a quella organizzazione o, più in generale, alla tutela dei diritti dei neri. “Black Lives Matter”, però, è un nome che non basta a spiegare quello che sta succedendo. “Riots”, rivolte è un termine che descrive molto meglio la fotografia scattata in queste ore.

Anzitutto la portata complessiva: bisognerà vedere per quanto tempo i manifestanti continueranno ad occupare alcune tra le principali città occidentali, Londra per esempio. La storicità di un fenomeno dipende pure dalla partecipazione e dalla durata del moto, che può essere idealistico o sfociare – come sta già accadendo – pure in altro. La natura pacifica non è una costante di queste manifestazioni. Incendi, scontri, devastazioni e saccheggi che interessano negozi: gli episodi stigmatizzabili, almeno negli Usa, non si contano più. C’è anche chi si limita alla non violenza, e non si può generalizzare.

Distribuire le responsabilità per le fasi meno pacifiche delle rivolte non è semplice. E non è neppure detto che i gesti violenti siano riconducibili a gruppi specifici o a sigle. Anche lo spontaneismo recita la sua parte – una parte che potrebbe essere molto rilevante – in questa storia. Sia come sia, il politicamente corretto impone una consueta linea tiepida: il doppiopesismo narrativo prevede che un certo tipo di violenza, filtrato dall’interpretazione, possa passare in sordina o quasi essere giustificato.

Tre, a prescindere dal humus delle circostanze e dalla ciclicità di questi eventi, sono i principali fattori in gioco che vale la pena annotare:  il contesto statale da cui è partito tutto, quello del Minnesota, gli effetti socio-economici della pandemia da Sars-Cov2 e la time-line che scorre in direzione di novembre, mese del voto per le presidenziali.

Il Minnesota

I Black Lives Matter, con la partecipazione di altre frange, come quella dell’estrema destra dei Boogaloo Boys, non hanno invaso le metropoli, partendo dall’Alabama o da qualche altro Stato del Sud. Quelli in cui la questione della discriminazione razziale è, se non altro per motivi storici, percepita come non più rimandabile. La base d’origine del moto è Minneapolis, una città governata da un progressista in rampa di lancio, Jacob Frey. Minneapolis è in Minnesota, dove governa un altro democratico: Tim Walz.

Il Minnesota è un’isola felice degli asinelli. Perché a licenziare il poliziotto accusato di omicidio ed altri agenti presenti nel mentre si consumava la tragica vicenda di George Floyd è stato Jacob Frey e non Donald Trump? La risposta a questo quesito ci aiuta a chiarire meglio come stiano le cose. La polizia di Minneapolis ha un capo: il primo cittadino. Una sottolineatura necessaria perché contribuisce a chiudere il cerchio sul fatto che Trump non abbia alcuna responsabilità diretta sul caso di Floyd. C’è chi parla di “clima creato”, ma quella è una considerazione politologica che lascia il tempo che trova. Il governatore Tim Walz ha preso una posizione netta: “Capisco la rabbia, ma la situazione è incredibilmente pericolosa. Dovete andare a casa”. E ancora: “Tutto questo non riguarda la morte di George Floyd, né le diseguaglianze, che sono reali. Questo è il caos”. Il caos, appunto, che è un elemento spesso dimenticato dalle analisi giustificazioniste, ma non dai vertici Democratici a quanto pare. Joe Biden sta postando foto che lo immortalano mentre incontra ed ascolta alcuni esponenti della protesta che – ripetiamolo – è anche pacifica, ma la sensazione è che i Dem non possano vantare un controllo su quello che sta accadendo e che, al contrario, all’establishment democratica, soprattutto in Minnesota, sia del tutto sfuggita di mano la situazione.

La situazione sociale dovuta alla pandemia

Le persone che si stanno fisicamente rivoltando hanno politicamente rivendicato qualcosa di circoscritto? La risposta è no. Un conto sono le manifestazioni non violente, un altro quelle che non violente non sono. Mentre scriviamo, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti procede spedito verso il 20%. La comunità nera, ma non solo, potrebbe aver subito il contraccolpo dell’implosione dell’economia reale. Implosione che è una conseguenza già palese della pandemia. Con Donald Trump, il tasso di disoccupazione dei neri che risiedono negli States è molto diminuito, ma il “cigno nero” potrebbe aver cambiato le carte in tavola. Ora, quella comunità, potrebbe sentirsi tradita dalle istituzioni in genere, dopo un periodo in cui – lo raccontano i dati – qualcosa in termini di percentuali di persone occupate era molto migliorato. Possibile che questo fattore faccia parte delle motivazioni dei rivoltosi? Possibile. E, in caso, sarebbe forse un collante, una radice, più profonda rispetto a molte altre.

La strada verso novembre

Donald Trump non è nella posizione di poter attaccare chi fa parte dei Black Lives Matter. Il movimento ha ricevuto critiche in passato ma, ad oggi, un attacco significherebbe condannarsi alla sconfitta elettorale. Perché le minoranze crescono demograficamente. E perché Biden sfrutterebbe la dichiarazione come non mai. Meglio, allora, individuare un altro avversario: gli antifascisti. Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti si apprestano ad omologare le organizzazioni antifasciste alle organizzazioni terroristiche. La mossa è intelligente: non colpevolizza la comunità afroamericana ed individua un responsabile politicizzato e forse al centro delle rivolte scoppiate in queste ore. La strada verso novembre per Trump appare comunque in salita. Ma associare le proteste di questi giorni ad una presunta mala gestione trumpiana è un atteggiamento prettamente opportunista che poco ha a che fare con la realtà dei fatti.