L’assetto geopolitico, le principali istituzioni mondiali, i modelli economici e perfino gli indicatori culturali e valoriali di riferimento: dal termine della Seconda Guerra Mondiale in poi, tutto questo – e molto altro – si regge su un ordine globale plasmato dall’Occidente, e fortemente influenzato dagli Stati Uniti. Dato lo strapotere di Washington, per decenni l’unica potenza sulla faccia della terra in grado di offrire una narrazione per l’umanità, nessuno è stato in grado di scalfire il cosiddetto Washington consensus. La situazione è cambiata in tempi non sospetti, precisamente da quando la Cina, in virtù delle riforme economiche intraprese nel 1978, ha iniziato a emergere come possibile alter ego degli Stati Uniti.

Del resto Pechino è riuscita – un unicum nella storia dell’umanità – a trasformarsi da Paese del Terzo Mondo a superpotenza candidata a rubare il trono americano. È in un contesto del genere che si inseriscono, ad esempio, le preoccupazioni di molti studiosi ben riassunte nell’imprescindibile volume Destinati alla guerra (Fazi) di Graham Allison. Allison ha analizzato la dinamica che da sempre ha scandito la storia dell’umanità, quella trappola di Tucidide secondo la quale quando una potenza emergente minaccia di spodestare quella dominante, il risultato più plausibile è la guerra.

Ecco la ragione chiave che potrebbe presto spingere Cina e Stati Uniti verso una guerra che nessuno dei due vuole veramente. Non Washington, sì preoccupata dell’ascesa cinese, ma non in grado, in questo momento, di impegnarsi in un conflitto armato; tanto meno Pechino, impegnato a tessere relazioni economiche con il resto del mondo e non certo a far sparare i cannoni.

La rinascita del Dragone

È altrettanto vero che la Cina, ora che ha raggiunto un peso specifico non più trascurabile sulla scena internazionale, non ha più alcuna intenzione di essere trainata, o peggio ancora ancorata, al punto di vista americano. Secondo quanto scritto da Dan Blumenthal, senior fellow presso l’American Enterprise Institute, Pechino avrebbe un obiettivo strategico a lungo termine da conseguire. Quale? Quello di sostituire gli Stati Uniti come Paese più potente al mondo e, consequenzialmente, creare un nuovo ordine mondiale più affine alla visione cinese, tanto dal punto di vista politico che economico.

Se sotto Deng Xiaoping il Partito Comunista cinese ha dato vita a una strategia capace di accumulare ricchezza (decisive le aperture del mercato cinese alle aziende straniere e l’istituzione di apposite zone economiche speciali), sotto Xi Jinping la Cina sta raccogliendo quanto coltivato nei decenni passati. Il Dragone, archiviato il cosiddetto “secolo dell’umiliazione”, durante il quale la nazione cinese aveva perso sovranità e ingenti porzioni di territorio a favore di potenze straniere, e dovuto fare i conti con disordini interni e guerre civili, è finalmente riuscito a rovesciare il passato in nome di un futuro da assoluto protagonista.

L’alternativa di Pechino: un ordine sino-centrico?

C’è una sorta di compromesso in seno alla società cinese: crescita economica garantita in cambio di controlli di partito più o meno flessibili. In altre parole, finché la Cina continuerà a crescere, incrementando la sua ricchezza e i propri indicatori economici, i leader del Pcc non corrono alcun rischio sistemico. In pochi decenni, Pechino ha così incrementato la ricchezza nazionale per mezzo di idee e capitali stranieri in cambio di graduali aperture economiche. In un secondo momento la Cina ha modernizzato l’esercito e costruito forze armate capaci di proteggere i suoi interessi commerciali non solo in Asia, ma anche oltre lo stretto di Malacca. L'”ascesa pacifica” cinese, come l’hanno più volte definita le autorità di Pechino, non ha però convinto gli Stati Uniti.

In particolare, ci sono alcune dinamiche che preoccupano gli americani, prima tra tutte il fatto che la Cina abbia iniziato a spostarsi internamente da una sorta di “autocrazia dello sviluppo” – come all’epoca avevano fatto Corea del Sud e Taiwan – a uno “stato di sicurezza nazionale”. È logico che, spinto da una crescita che sembra inarrestabile, il gigante asiatico abbia intenzione di mescolare le carte in tavola e proporre un nuovo ordine mondiale più adatto alle proprie esigenze. Che, si badi bene, non sono affatto le stesse di un secolo fa.

È per questo che Xi ha annunciato l’ingresso del suo Paese in una “nuova era” nel quale la Cina sarebbe tornata al centro della scena da leader globale e in grado di plasmare un nuovo ambiente favorevole per la sua visione del mondo. Blumenthal ha sintetizzato quattro elementi che sarebbero tipici della strategia cinese di Xi:

  1. Creare nuove reti di partnership strategiche così da sostituire il sistema di alleanze – definite ineguali – costruite in passato dagli americani;
  2. Trasformare la Cina nella nazione tecnologicamente più avanzata del mondo;
  3. Costruire un esercito potente e moderno;
  4. Indebolire gli avversari mediante la rivitalizzazione della politica ideologica.

Ecco, dunque, nella sua interezza la sfida geopolitica che la Cina sta ponendo alla leadership globale degli Stati Uniti.