Per spiegare che cosa succederà al mondo intero nei prossimi anni bisogna partire dalla morte lenta di Big Oil, ovvero della grande industria degli idrocarburi. Il Financial Times ha scritto un editoriale in cui si sottolineava la “morte lenta” del petrolio, una risorsa che negli ultimi decenni ha sempre fatto rima con ricchezza. A quanto pare, almeno a giudicare dalle tendenze più recenti, la domanda globale di oro nero raggiungerà il picco nei prossimi anni per poi affrontare una discesa giudicata irreversibile.

Tante sono le motivazioni che hanno portato il petrolio fino al punto di non ritorno. La pandemia di Covid-19 ha accelerato il calo dei consumi ma, ben prima dell’emergenza sanitaria, soffiava già il vento della disfatta, alimentato dal dilagare dell’ambientalismo e dall’affermarsi della green economy. Il settore ha quindi subito enormi pressioni affinché si riconvertisse, tant’è vero che Goldman Sachs ha previsto, per l’anno prossimo e per la prima volta in assoluto, una spesa per le fonti di energia rinnovabile superiore a quella relativa alla produzione di petrolio e gas.

Ebbene, il cambiamento appena descritto comporterà evidenti ripercussioni geopolitiche. Se in passato controllare petrolio faceva rima con ricchezza e potenza, in un futuro non troppo lontano un’equazione del genere sarà carta straccia. Inutile girarci intorno, nel vortice dei cambiamenti finiranno le due superpotenze planetarie: Stati Uniti e Cina.

Un elettro-Stato

Come ha scritto l’Economist, la Cina sta diventando a tutti gli effetti una sorta di “elettro-Stato”. La prova più evidente sta negli investimenti strategici e mirati lungo l’intera catena del settore. Se a essere predominante sarà l’energia elettrica, allora Pechino vuole anticipare la tendenza e farsi trovare pronta all’appuntamento con la storia. Il Dragone, tuttavia, non diventerà necessariamente un “campione della green economy”.

O almeno, non nell’immediato visto che, ha sottolineato ancora il settimanale britannico, il gigante asiatico può contare su mille gigawatt di capacità di produzione elettrica di carbone installata. Insomma, nell’ex Impero di Mezzo si usa ancora il carbone e lo si userà per altri anni. Dall’altro lato la Cina può vantare successi invidiabili: 445 Gw di elettricità provenienti da eolico e solare, oltre che 356 Gw da idroelettrico. Come se non bastasse sono in produzione centrali nucleari per alimentare l’intero settore.

Il governo cinese ha imparato una lezione fondamentale: apprendere i “trucchi del mestiere” dai Paesi stranieri e applicarli in larga scala sul proprio immenso territorio, con effetti moltiplicati grazie agli ingenti investimenti di Stato sui quali può contare l’economia del Dragone. Oltre alla produzione di energia elettrica, ha ricordato il Corriere della Sera, Pechino ha investito sul fronte delle terre rare e di quei minerali necessari per batterie e altri prodotti legati al comparto tecnologico. In che modo? Stringendo accordi con i principali Paesi produttori del mondo.

Europa e Stati Uniti inseguono

Mentre la Cina ha spuntato già diversi traguardi, Europa e Stati Uniti stanno iniziando a muovere i loro primi passi concreti. L’Unione europea ha puntato tutto sul Green Deal. L’intenzione di Bruxelles è chiara: far scendere le emissioni fossili al 55% del 1990 entro il 2030. Diverso il discorso relativo agli Stati Uniti che, pur avendo sulla carta tutti gli strumenti per intraprendere questo percorso, è ancora titubante.

Washington può contare sulle risorse, sulle capacità tecnologie e sul know how. Ma cambiare le regole del gioco comporterebbe sacrificare il settore del carbone americano, e quindi moltissimi posti di lavoro. Prima che la Cina possa accelerare e diventare imprendibile, sostengono gli esperti, è fondamentale che Pechino riesca a stringere accordi con quanti più Paesi possibile. È solo in questo modo che le imprese cinesi potranno fornire elettricità a un gran numero di soggetti terzi e diventare sempre più potente. Soltanto in quel momento la Cina diventerà a tutti gli effetti un “elettro-Stato”.