Ancora dieci giorni e conosceremo l’esito delle primarie dei Conservatori britannici: Boris Johnson ha il favore dei pronostici. Il 22 luglio non scopriremo soltanto chi sarà il prossimo leader dei Tories, quindi, stando al mos maiorum del Regno Unito e ai numeri del Parlamento, il premier in pectore che succederà a Theresa May, ma anche una parte consistente dell’avvenire europeo. L’inglese, che ha ereditato la funzione del latino, è la “lingua veicolare” tramite cui, ancora oggi, si tengono le riunioni nelle sedi di Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo, ma il francese, il linguaggio della diplomazia per antonomasia, potrebbe tornare a riecheggiare nei corridoi che contano. Non si tratta solo di attendere un dato politologico: anche la visione d’insieme dell’Unione europea, quella a cui tutti noi abbiamo guardato per anni, potrebbe variare.
La sfida tra l’ex sindaco di Londra e l’attuale ministro degli Esteri del governo May è appassionante perché antitetica. Jeremy Hunt sta provando ad attrarre gli elettori, limitando il suo spiccato europeismo. Ma il vento, come il 33% fatto registrare dal Brexit Party alla tornata del 26 maggio ha certificato, non spira dalla parte di coloro a cui sta bene il rapporto di dipendenza dagli organi sovranazionali. Lo stratagemma comunicativo di Hunt non risulta persuasivo. Boris Johnson, nonostante tutto quello che gli sta capitando, mantiene saldo il timone. L’esponente sovranista non ha bisogno di ripeterlo più di tanto: gli elettori già sanno che nel caso dovesse vincere l’assetto geopolitico cambierà entro il prossimo 31 ottobre, che è la data limite per contrarre un accordo. Altrimenti sarà comunque Hard Brexit. Jeremy Hunt, dal canto suo, continua a porre la questione degli effetti economici di uno strappo, che a Boris Johnson sembra interessare il giusto.
Le primarie dei Tories divengono così utili a decodificare cosa potrebbe accadere se altre parti importanti dell’Unione europea venissero meno. Circa un mese fa, Le Figaro ha pubblicato un articolo che mette a confronto pure la figura di Boris Johnson e quella di Matteo Salvini. Donald Trump, che è un sostenitore del bilateralismo commerciale, avrà notato come Italia e Regno Unito costituiscano i due estremi, anche geografici, del Vecchio continente. La fonte sopracitata ha ben sintetizzato e argomentato così questo concetto: “Poi c’è una tradizione di ostilità verso l’Europa carolingia, troppo centrata sul Reno e non abbastanza interessata alle aree periferiche”. Esiste una letteratura convinta di come gli Stati Uniti stiano lavorando alla destrutturazione dell’organizzazione internazionale europeista, cioè l’Ue, facendo leva sull’uno e sull’altro Stato nazionale. Ma stiamo parlando di una congettura. Di sicuro c’è l’appiattimento dell’ex primo cittadino londinese su The Donald.
La vicenda di Kim Durroch può servire a tastare il polso della situazione. L’ambasciatore Uk negli Stati Uniti, dimessosi qualche giorno fa, è l’autore di una serie di virgolettati, balzati sui media, tra cui colpisce quel “Trump inetto”, che non ha lasciato indifferente il presidente degli Usa. Bene, Boris Johnson aveva ipotizzato, sempre in caso di vittoria, di mandare Durroch a casa prima del tempo. Inutile aggiungere come Hunt abbia tutta un’altra visione della faccenda.
Questa storia, insomma, si quasi racconta da sola. La concatenazione con gli States però porta con sé una domanda: cosa succederebbe al Regno Unito se, dopo un rilancio economico strutturato con il benestare e la complicità di Trump, quest’ultimo dovesse perdere le presidenziali del 2020? Joe Biden e gli altri sono sostenitori di un mondo commerciale sconfinato, che è l’esatto contrario della dottrina sovranista.