Che cosa c’è di più nobile e comprensibile del desiderio di avere un focolare, una casa, una patria? Nulla. Per questo la causa dei curdi, 30 milioni di persone note per essere “il più grande popolo senza uno Stato”, spesso perseguitate, ingannate da Francia, Regno Unito e Usa che nel 1923 (Trattato di Sévres) ritirarono le promesse loro fatte nel 1920 (Trattato di Varsailles), suscita tanta simpatia e il risultato del referendum per l’indipendenza, appena svolto nel Kurdistan iracheno con un “sì” plebiscitato dal 92,7% dei votanti, è stato accolto con tanta comprensione. Però…

Se appena proviamo ad alzare lo sguardo dalla questione specifica, scopriamo che il quadro (anche al netto della prevedibile ostilità del governo centrale dell’Iraq, della Turchia e dell’Iran) potrebbe essere assai meno idilliaco di quanto sembri. E molti ideali un po’ meno nobili di quanto vogliano apparire.

In primo luogo, non può essere una coincidenza che questo referendum sia stato convocato da Massoud Barzani, presidente del Kurdistan e uno dei due notabili (l’altro è Talabani) che controllano la regione, e svolto in tutta fretta quando la sconfitta militare dell’Isis è diventata evidente. Di referendum sull’indipendenza si parla almeno dal 2003, cioè da quando americani e inglesi, grandi protettori del Kurdistan (soprattutto i primi), decisero di invadere l’Iraq e liquidare Saddam Hussein. Da allora, per quattordici anni, il referendum è stato evocato, minacciato, proposto e posposto in una sequela senza fine di finte e controfinte. Proprio adesso, invece, è diventato indispensabile svolgerlo davvero.

Un tempismo un po’ sospetto. Sarà solo un cattivo pensiero ma si ha la sensazione che il referendum serva, oggi, a proseguire la politica di spezzettamento dell’Iraq e del Medio Oriente così cara alle potenze occidentali. Fin dal 2003, infatti, i pensatoi politici anglosassoni si fecero promotori dell’idea di fare spezzatino dell’ex dominio di Saddam, assegnandone una parte agli sciiti, una ai sunniti e la terza appunto ai curdi. In qualche fase, per completare l’opera, si parlò anche di un “safe haven”, un “porto sicuro”, per i cristiani iracheni nella zona di Mosul. Se poi alziamo ulteriormente lo sguardo, e ripensiamo alla guerra in Siria, notiamo che il progetto anche lì era analogo, solo molto più cruento: abbattere il regime di Bashar al-Assad e spezzettare il Paese, suddividendolo tra Arabia Saudita, Turchia, Giordania e chissà chi per zone d’influenza. Come se le nostre cancellerie avessero una paura matta degli Stati unitari, nazionali e riuscissero a sopportare solo le confederazioni tribali e avessero deciso di smembrare i primi e mettere sotto tutela le seconde. Cosa che peraltro avviene da un secolo giusto, cioè da quando Francia e Regno Unito fecero a pezzi l’impero ottomano (1916) e crearono la macedonia che abbiamo avuto finora sotto gli occhi.

In altre parole, e con il massimo rispetto per gli ideali dei curdi iracheni, questo referendum, che ha sollevato venti belligeranti tra Turchia, Iran e Iraq e tra gli stessi curdi (tra quelli del Rojava siriano e quelli del Kurdistan non corre buonissimo sangue), rischia di essere utilizzato come un grimaldello per far saltare il Medio Oriente, una specie di attrezzo di scorta dopo che il martello pneumatico chiamato Isis è finito in discarica.

E la sensazione cresce se, osservando un orizzonte più ampio, notiamo come siano sotto attacco da parte dell’amministrazione Usa, tornata sotto il controllo dei generali e dei finanzieri che da decenni fanno da padroni alla Casa Bianca e altrove, gli unici veri Stati nazione della regione. All’Egitto sono stati appena tagliati 300 milioni di dollari di aiuti allo sviluppo e alla sicurezza. La Turchia ha subito un tentativo di colpo di Stato in cui è probabile, anche al netto delle invettive di Recep Erdogan, che gli Usa abbiano avuto una qualche parte. E l’Iran, dopo decenni di sanzioni, è tornato nel mirino. Inutile dire, ovviamente, che nella narrazione occidentale si tratta non della pratica del “divide et impera” ma di nobili e disinteressati interventi in difesa dei diritti umani e della democrazia.

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