I politici di Sua Maestà hanno tanti difetti ma un merito indubbio: quando decidono che è arrivato il momento di aprire le finestre e cambiare aria lo fanno. E così nelle stanze dei bottoni di Downing Street si materializza il cambiamento, che può essere deciso dagli elettori con le elezioni, nel migliore dei casi, ma in casi eccezionali anche dai partiti stessi. È già avvenuto in passato varie volte, basti pensare a Margaret Thatcher, per citare uno dei casi più famosi. È avvenuto poi con Theresa May, David Cameron e oggi con Boris Johnson. Le ragioni sono diverse, ovviamente, ma non cambia la sostanza: il partito decide che sia utile imprimere una svolta e il leader viene invitato (più o meno bruscamente) a farsi da parte. Non esistono, nel Regno Unito, leader eterni. Il cambiamento non è inteso come un disvalore o un’onta ma una possibilità.

Se gli inglesi non hanno sentito ragioni mandando a casa anche un gigante come Winston Churchill, vincitore della Seconda guerra mondiale con gli Alleati (fu sconfitto nelle elezioni del 1945 dal partito laburista di Clement Attlee), sono più numerosi i leader pensionati in anticipo dai loro stessi partiti. Prima accennavano alla Lady di ferro, Margaret Thatcher, che nel 1990 fu costretta a dimettersi dopo essere stata messa in minoranza nel partito conservatore, con Michael Heseltine che prese le redini dei Tory e John Major che fu mandato al numero 10 di Downing Street. Nonostante i profondi cambiamenti impressi al suo Paese, e pur essendo divenuta un’icona del mondo conservatore a livello mondiale, insieme al presidente Usa Ronald Reagan, la Thatcher non riuscì a superare l’ondata di impopolarità derivante dall’introduzione di una nuova tassa fissa comunale, la poll tax, e pagò anche le sue posizioni sulla Comunità europea non condivise da tutti nel suo partito.

La leadership di un partito nel Regno Unito viene decisa democraticamente. Occorre un certo numero di firme da parte di colleghi deputati (i conservatori ne prevedono otto) per potersi candidare come leader, poi decidono i delegati una volta riunitisi in assemblea. I tempi sono abbastanza veloce, si parla di qualche settimana. E non c’è alcun bisogno di tornare alle elezioni. Una volta regolati i conti all’interno del partito, il nuovo leader incaricato si presenta dalla regina e riceve l’incarico di formare il nuovo esecutivo. Tutto con estrema semplicità e trasparenza.

Ovviamente non mancano le faide interne e i giochi di potere, come in ogni sistema politico. Ma, a differenza del nostro Paese, i bizantinismi e le giravolte fini a se stesse sono ridotte ai minimi termini. Così come sono pressoché inesistenti le “sceneggiate”. Se un leader viene sconfitto ed esce dalla porta non rientra dalla finestra, magari con un’altra casacca, facendo finta di nulla. Se vieni mandato a casa difficilmente torni in pista come se nulla fosse. Anche questa è un’altra delle grandi differenze tra il sistema britannico e il nostro. Se Churchill fu mandato a casa dopo aver sconfitto i nazisti, Johnson viene fatto accomodare fuori dalla porta dopo aver sconfitto il Covid. Corsi e ricorsi della storia. Non importa ciò che hai fatto di buono, la politica britannica ha un tasso di ricambio altissimo. Questo genera anticorpi potenti contro ogni malattia.

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