Quando la partita è entrata nella sua fase più calda, da Berlino Angela Merkel ha deciso di rompere gli indugi. Il capo uscente dell’esecutivo tedesco ha chiamato il presidente bielorusso Alexandar Lukashenko per trovare una precisa intesa: stop all’invio di migranti verso la Polonia, via a corridoi umanitari e rimpatri verso i Paesi di origine. A Bruxelles adesso l’obiettivo cardine è quello di nascondere l’imbarazzo, a Minsk invece si festeggia. Il ricatto bielorusso ha funzionato, l’Ue ancora una volta ha dovuto alzare bandiera bianca. La telefonata della Merkel ha infatti il significato di almeno due smacchi clamorosi per l’Europa. In primo luogo chiamare Lukashenko ha voluto dire riconoscere la legittimità di quest’ultimo quale presidente. Circostanza questa messa in dubbio dall’Europa già dall’agosto 2020. In secondo luogo, gli interessi tedeschi hanno prevalso su quelli comunitari.
L’Ue costretta nuovamente a cedere
La partita sulla pelle dei migranti è iniziata già lo scorso anno. Nell’agosto 2020 in Bielorussia il presidente Alexandar Lukashenko è stato rieletto per un nuovo mandato, suscitando la reazione di diversi suoi oppositori. L’Ue, davanti a una nuova possibile rivoluzione colorata contro un alleato di ferro del presidente russo Vladimir Putin, si è schierata subito con l’opposizione. Bruxelles, in particolare, non ha riconosciuto l’esito delle elezioni definendole truccate. In tal modo non ha dato legittimità a Lukashenko quale rappresentante della Bielorussia. Lo scorso maggio è arrivato quello che sembrava il punto di non ritorno. Un aereo in volo tra Atene e Vilnius è stato dirottato dai bielorussi a Minsk per arrestare Roman Protasevich, un giornalista critico nei confronti del presidente. L’Europa, in risposta a questo episodio, ha varato un primo pacchetto di sanzioni. A quel punto Lukashenko ha iniziato la sua cinica e spietata partita. Nella capitale bielorussa sono stati fatti confluire in poche settimane migliaia di migranti dal medio oriente. Voli da e per Baghdad, Damasco e altre città mediorientali hanno assunto il carattere della quotidianità.
Ai migranti, secondo alcune testimonianze raccolte poi alla frontiera, è stato detto di dirigersi verso i confini con Polonia e Lituania. Le autorità bielorusse hanno spesso smentito questa ricostruzione, ma da maggio in poi Varsavia e Vilnius hanno contato migliaia di accessi illegali nei propri territori. Si era quindi aperta una nuova rotta migratoria. L’obiettivo di Lukashenko era chiaro: ricattare l’Ue e far modificare la sua linea politica sulla Bielorussia. Bruxelles sembrava voler resistere. Ha appoggiato la Lituania e la Polonia, non ha condannato le velleità polacche di costruire un grande muro al confine entro il giugno 2022. Inoltre i ministri degli Esteri dei 27 hanno varato un nuovo pacchetto di sanzioni contro alcune personalità vicine a Lukashenko. L’incalzare della rotta migratoria però ha avuto la meglio. Il presidente bielorusso ha ricevuto la telefonata di Angela Merkel. I due hanno trovato un accordo: 2.000 migranti possono accedere in Germania tramite un corridoio umanitario, gli altri devono essere rimpatriati dalla Bielorussia. Da Bruxelles si sta provando a minimizzare. Si parla di semplici intese tecniche. Ma l’accordo di fatto c’è e, con esso, un implicito riconoscimento di Lukashenko quale leader. A quest’ultimo poco può importare di sanzioni contro una trentina di funzionari. L’obiettivo cardine era vedersi assegnata una qualche forma di legittimità. Il ricatto è riuscito. Ancora una volta la coperta dell’Ue si è rivelata molto corta.
Gli interessi tedeschi prima di tutto
Ma come mai è stata proprio Angela Merkel a voler porre fine alla crisi migratoria bielorussa? Il motivo è semplice e basta guardare una cartina. Subito dopo la Polonia, c’è la Germania. Quelle migliaia di migranti assiepati lungo le frontiere polacche volevano entrare in territorio tedesco. Per Berlino tutto questo sarebbe stato inaccettabile. Da qui l’interessamento in prima persona del cancelliere uscente, ancora in carica finché i partiti non trovano un nome per la sua successione. Nessuno voleva il ripetersi di quanto accaduto tra il 2015 e il 2016, anni in cui almeno mezzo milione di siriani sono riusciti a entrare in Germania risalendo la rotta balcanica. I discorsi di questi mesi sui diritti umani, sulla democrazia e sulle libere elezioni da tenere in Bielorussia, di colpo si sono rivelati nella loro vera natura: ossia mera retorica sovrastata e surclassata dalle esigenze e dagli interessi politici in ballo.
Una circostanza che potrebbe avere ripercussioni all’interno dell’Ue. Non tanto per le sorti della democrazia bielorussa, quanto per il futuro degli equilibri comunitari. Per settimane sono state cercate intese a Bruxelles sulle linee da tenere, sul sostegno da accordare a Polonia e Lituania. Ma si stava evidentemente parlando del nulla. Perché alla fine per chiudere la partita è bastata, con un’azione in solitaria e compiuta in primis per gli interessi tedeschi, una telefonata di Angela Merkel a un nemico trasformatosi in interlocutore. Per la cronaca, da Minsk gli aerei con a bordo i migranti da rimpatriare sono già partiti e la pressione lungo il confine polacco si sta già ridimensionando. La vicenda sembra avviata verso la conclusione. Dopo la Turchia, anche la Bielorussia ha toccato con mano quanto facile sia ricattare l’Europa.