Negli Stati Uniti si parla d’impeachment per Trump con una certa costanza. Dopo quanto accaduto a Capitol Hill qualche sera fa, il Partito Democratico ha deciso di alzare il tiro. Del resto, proprio durante l’assalto dei manifestanti pro Trump – quelli che il presidente eletto Joe Biden chiama senza mezzi termini “terroristi domestici” -, la deputata Ilhan Omar, una delle esponenti della “squad” – ossia il team correntizio che fa capo ad Alexandria Ocasio Cortez e Bernie Sanders – si è messa al lavoro sulla messa in stato d’accusa, domandando a gran voce il sostegno istituzionale della Camera e del Senato. La Omar ha comunicato la cosa via social, mentre l’attacco era ancora in corso.

La mossa è stata subito apprezzata dalla Cortez, e il tutto può essere interpretato anche sulla base degli spazi che la cosiddetta “nuova sinistra” intende occupare nel corso del mandato di Biden. Bernie Sanders e la Cortez, del resto, non fanno parte del governo che sta per insediarsi. La “nuova sinistra”, nonostante il clamore ed il consenso mediatico, è fuori dai giochi. Normale, quindi, che da quelle parti cerchino di scavalcare a sinistra la futura amministrazione degli Stati Uniti d’America. In questa circostanza, però, sembra che sia l’intero Partito Democratico a pensare che la strategia dell’impeachment sia tanto corretta quanto necessaria.

Il primo tentativo d’impeachment, durante il mandato trumpiano, per il presidente in carica non è andato a segno. Ora la situazione è diversa, perché è cambiata la maggioranza della Camera, mentre al Senato c’è una parità sostanziale, con il voto di Kamala Harris che rischia di essere decisivo nel corso dei prossimi quattro anni. Anche alcuni parlamentari repubblicani, però, hanno contestato i toni del tycoon in questi mesi. E secondo la narrazione condivisa dai più, sono state proprio le parole di The Donald a far sì che i protestanti assaltassero Capitol Hill durante la giornata della certificazione del risultato delle presidenziali. Il quadro, insomma, è parecchio mutato.

Per quanto al giuramento di Biden manchino ormai poco più di dieci giorni, alcuni ambienti sono preoccupati. La sensazione è che Trump possa fare altri danni, insomma, magari con qualche parola fuori luogo in grado di scatenare di nuovo la cosiddetta “America profonda”.  La vice speaker dei Dem alla Camera ha annunciato che l’inizio della prossima settimana potrebbe avere inizio l’iter della messa in stato d’accusa. Bisognerà vedere cosa ne pensa Biden: il presidente eletto, che ha già palesato l’intenzione di unificare gli States, potrebbe anche operare pressioni affinché l’impeachment rimanga soltanto un’ipotesi. Una messa in stato d’accusa polarizzerebbe gli schieramenti in misura superiore, se possibile. E il clima sociale potrebbe risentirne. Vedremo. In ogni caso, la logica è quella di fare in modo non soltanto che possa essere screditato ora, ma che non possa direttamente candidarsi alle prossime elezioni, perché un presidente condannato di aver violato la Costituzione e quindi di essere uscito dal solco di ciò che è la base degli Stati Uniti, è considerato incandidabile e eticamente innacettabile.

Sul tavolo c’è pure un’altra ipotesi: quella del venticinquesimo emendamento. Spetta al vicepresidente Mike Pence, in caso, sollevare la questione, e giudicare dunque Trump non nelle condizioni di adempiere al suo ruolo. Mike Pence, che è un uomo di partito, in queste ore ha preso le distanze da Trump, ma da qui a poter ragionare sull’eventuale invocazione del venticinquesimo emendamento ce ne passa. Se non altro il Gop non può rinunciare all’intero elettorato trumpiano. Una mossa del genere allontanerebbe le frange più estremiste, ma non solo. I Repubblicani non possono evitare di pensare ai 74 milioni di preferenze espresse per Trump a novembre scorso.

Il presidente in carica rischia in buona sostanza la damnatio memoriae. Alla luce delle riflessioni appena esposte, nel caso del venticinquesimo emendamento, e delle tempistiche in quello dell’impeachment, è possibile, anzi probabile, che il tycoon non venga rimosso prima della scadenza naturale del suo mandato. Il problema, per il magnate, è costituito dall’atteggiamento del Partito Repubblicano, che sembra intenzionato a normalizzare la propria piattaforma, dopo questo quadriennio sovranista. Tornare, in sintesi, ai tempi di George W. Bush e a quel tipo di comunicazione politica: l’intenzione è quella, ma non è condivisa da tutti.

Il trumpismo fa ormai parte dell’anima dell’America profonda e non solo. La sensazione è che stia iniziando una partita che più attori giocheranno per almeno i prossimi quattro anni. I Dem, però, potrebbero comunque avviare la procedura d’impeachment, pur consapevoli della difficoltà della riuscita da un punto di vista temporale. Il 20 gennaio è dietro l’angolo, ma i progressisti potrebbero usare la messa in stato d’accusa alla stregua di una strategia per evitare che Trump prenda parte, anche se da fuori, alla dialettica politica, oltre che per scongiurare il rischio che l’elettorato possa colpevolizzare l’amministrazione Biden per non aver reagito ai fatti di Capitol Hill. Resta però quella tensione su cui Biden ha la necessità d’intervenire, placando gli animi di tutti, se intende governare all’interno di un contesto pacificato.

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