Proprio quando l’intelligence Usa aveva indicato la data di una possibile operazione militare russa in Ucraina, da Mosca arrivano primi segnali di disgelo.
Segnali da Mosca
In concomitanza con il vertice tra il presidente russo, Vladimir Putin, e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il Cremlino ha deciso di mettere atto alcune iniziative per dimostrare di non avere intenzione di invadere. Almeno non nell’immediato. Il presidente russo sembra avere aspettato il momento più critico, quello in cui la Nato temeva un’operazione su vasta scala in territorio ucraino, per cambiare il proprio atteggiamento e far capire che la guerra non era mai stata un’idea di Mosca. Ha iniziato ad allontanare alcuni battaglioni dal confine più caldo, pur giustificandolo con la semplice fine delle esercitazioni. E sul piano diplomatico, si registrano, sempre da parte del presidente russo, segnali di apertura sulla “sicurezza comune” di Nato e Russia e sulla possibilità di un negoziato con gli Stati Uniti.
Disgelo ma con molte incertezze
I segnali dunque ci sono, ma se dall’ultimo vertice di russo-tedesco di Mosca trapela un cauto ottimismo, dall’altra parte rimangono dubbi su come possa avvenire la definitiva de-escalation. Dagli Stati Uniti, dalla Francia e dal Regno Unito si chiede ad esempio di verificare l’effettivo allontanamento di alcune truppe dal confine dell’Ucraina. Sul piano della risoluzione del vero nodo della crisi, e cioè la possibile adesione di Kiev nella Nato, ci si chiede come questo possa avvenire da un punto di vista formale, visto che si tratterebbe di mettere nero su bianco che un Paese non entrerà mai in un’alleanza semplicemente per non provocare le reazioni di un avversario strategico. “Da 30 anni ci dicono che non allargheranno la Nato verso la Russia ma è sempre successo”, ha accusato Putin. E con un avvertimento molto chiaro, si è rivolto ai giornalisti dicendo che “la questione va risolta ora“.
Infine, anche sul tema delle regioni separatiste ucraine, la mozione della Duma, pur se congelata dal Cremlino, ha comunque messo in allerta sulla possibilità che Mosca riconosca le prerogative di Donbass e Luhansk. Ipotesi che il governo russo ha comunque voluto allontanare per evitare di essere tacciato come la parte che violerebbe gli accordi di Minsk, ma che comunque ricorda a tutti che il tema delle regioni orientali dell’Ucraina non si è affatto risolto. E del resto lo stesso leader del Cremlino ha parlato di quanto avviene nel Donbass definendolo “un genocidio”. Parola che per molti osservatori potrebbe anche essere il preludio a un intervento di minore intensità ma giustificato dal tentativo di fermare le violenze contro la popolazione russofona.
I telefoni delle cancellerie mondiali, dopo la giornata di ieri, continueranno dunque a essere bollenti. Perché se è vero che i segnali di distensione sono arrivati, è altrettanto vero che è impossibile in questo momento dare tempistiche nette e certezze sulla de-escalation.
Convergenze parallele
Lo “stop and go” di ieri è arrivato per una serie di importanti convergenze. L’arrivo di Scholz ha rappresentato lo sbarco a Mosca del migliore alleato russo in Europa. La Germania ha costruito con la Federazione Russa rapporti solidi, basati non solo sulla sinergie diplomatiche ma anche sul fronte del gas. Il colloqui di tre ore tra i due leader è sembrato foriero di risultati molto diversi rispetto a quelli ottenuti da Emmanuel Macron con lo “zar”, segno che l’asse tra Berlino e Washington e i buoni rapporti tra la capitale tedesca e quella russa incidono – e non poco – su chi può avere il ruolo di mediatore.
Dal punto di vista militare, è chiaro che la Russia dovesse anche iniziare a far capire di non essere pronta alla guerra. Ma sul piano delle manovre in corso tra Mediterraneo, Mar Nero e Bielorussia, va da sé che queste non possano essere infinite. Le esercitazioni hanno una pianificazione e una durata ben definita, e quindi è chiaro che interpretare ogni rientro nelle basi come un gesto di distensione rischia di essere eccessivamente ottimista. Nel Mar Nero continua a esserci una forte concentrazione di navi russe, anche non lontano da Mariupol. E l’allarme da Oltreoceano su nuovi schieramenti tattici in alcune aree di frontiera tra Russia e Ucraina induce alla cautela. Come ricorda La Stampa, solo in questi giorni “l’intelligence ha registrato 105 battaglioni tattici schierati contro gli 83 della scorsa settimana”.
Una vittoria tattica
In generale, si può dire che Putin – almeno per il momento – la sua prima vittoria tattica l’ha ottenuta, come spiega Lucio Caracciolo su La Stampa. E il disgelo segnalato in queste ore ne è una prima certificazione che serviva anche al Cremlino per far capire di essere un interlocutore credibile e non animato da velleità irrazionali. Tutti vogliono andare a Mosca, discutere con il suo padrone di casa e provare a trovare una soluzione alle “garanzie di sicurezza” richieste. Il presidente russo è tornato al centro della politica europea e incide sulla sicurezza del Vecchio Continente senza passare per leader secondario rispetto a quelli di altre superpotenze. E per quanto riguarda il blocco occidentale, l’ordine sparso in cui si è mossa la diplomazia di Washington e delle capitale dell’Ue conferma una divisione ben più profonda rispetto alle apparenti unità di vedute sul fronte Nato.
L’Alleanza ha tenuto, ma solo come un’appartenenza formale più che sostanziale. E le poche garanzie offerte da Joe Biden all’omologo ucraino lasciano il sospetto che l’Occidente non avrebbe potuto fare molto per fermare qualsiasi ambizione di Mosca.