In Sri Lanka la popolazione è scesa per le strade a manifestare chiedendo le dimissioni di tutto il governo e un cambiamento radicale del potere istituzionale. Le manifestazioni sono state violentemente represse dai militari e gli scontri sembrano non placarsi. L’Isola sta attraversando la più grave crisi economica ed istituzionale da quando nel 1948 raggiunse l’indipendenza dalla Regno Unito. Da gennaio i prezzi di generi alimentari ed energia sono vorticosamente aumentati e il governo cingalese si è trovato impreparato non riuscendo a rispondere alle domande della popolazione che attraverso delle violente manifestazioni chiedeva le dimissioni del primo ministro.
La crisi economica
La rabbia è alimentata da una profonda crisi non recente che risiede in una cattiva gestione dei fondi pubblici e di una profonda corruzione in seno al governo cingalese che è al pari di un vero e proprio clan familiare. Il presidente Gotabaya Rajapaksa, eletto nel novembre 2019, ha infatti da subito installato fratelli e parenti ai posti più ambiti delle istituzioni. Suo fratello Mahinda ad esempio, anch’esso presidente dal 2005 al 2015, è adesso primo ministro, mentre le finanze sono state affidate a un altro fratello, Basil. In tutto sono ben cinque i Rajapaksa che occupano posizioni governative.
Il clan familiare è ritenuto responsabile di non aver saputo gestire la crisi ma anzi di aver approfittato delle finanze del paese e di aver fatto degli investimenti sbagliati sperperando soldi pubblici. Uno dei tanti è stato voler trasformare il paese nel primo a eliminare i fertilizzanti e diventare totalmente bio, azione non riuscita e che ha provocato l’ira degli agricoltori. Un altro investimento non riuscito è stato quello di modernizzare le infrastrutture turistiche ma che ha portato il Paese a indebitarsi ancora di più.
Il crollo economico è anche dovuto da altri fattori: il calo del turismo dovuto alla pandemia di Covid-19, una politica fiscale non adeguata, la decisione di abolire alcune tasse e il gravoso debito pubblico pari a 51 miliardi di dollari. Adesso lo Sri Lanka ha le casse praticamente vuote e non dispone più di valuta estera per poter comprare i beni di prima necessità. Così da gennaio i prezzi dei generi alimentari e dell’energia sono aumentati vertiginosamente e lo Stato è a corto di tutto costringendo la popolazione a vivere con carenze e interruzioni di corrente. Manca tutto: cibo, gas, benzina, medicine.
L’inflazione è alle stelle toccando il 19% a marzo e la Borsa si è contratta del 3,6%. A tutto ciò si aggiungono anche le conseguenze della guerra in Ucraina che stanno stravolgendo tutto il mondo e più di tutti i paesi già in estrema difficoltà come lo Sri Lanka. Per cercare di tamponare la situazione il governo a gennaio ha cercato di attuare delle politiche che però non hanno avuto successo: un piano di aiuti di un miliardo di euro che avrebbe riguardato almeno due milioni di cittadini. Non avendo però accostato a questo piano un aumento delle tasse si è così incrementato ancora di più il debito pubblico. Per la penuria di cibo è stato chiesto alla popolazione di coltivarsi da soli verdure e ortaggi, per l’energia invece si è chiesto aiuto – non per la prima volta – all’India che ha inviato 40.000 tonnellate di gasolio a inizio aprile. La popolazione, stanca dei prezzi diventati insostenibili e capito che il governo non sarebbe stato in grado di risolvere la situazione, ha deciso quindi di scendere in piazza a manifestare.
Le proteste e le dimissioni del presidente
I cingalesi da subito hanno chiesto le dimissioni del governo che in quel momento aveva appena chiesto al Fondo Monetario Internazionale un prestito di 3-4 miliardi di dollari. Dopodiché il 12 aprile il paese ha annunciato il default sul debito estero. Da quel momento le manifestazioni sono diventate più cruente e la richiesta di dimissioni più pressante. Decine di migliaia di automobilisti hanno bloccato le strade per protestare contro l’aumento del carburante. Rajapaksa ha cercato di tamponare la situazione nominando un nuovo governo e rimuovendo alcuni suoi familiare ma mantenendo suo fratello Mahinda come primo ministro.
Nel tentativo di disinnescare la crisi, il 9 maggio il Presidente Rajapaksa ha nominato un nuovo governo, dal quale sono stati rimossi due suoi fratelli e un nipote. Lo stesso giorno il primo ministro Mahinda, fratello del presidente, ha dato le sue dimissioni, segnando un gran cambiamento. Le dimissioni del premier hanno portato automaticamente allo scioglimento del governo. Da quel giorno le manifestazioni si sono radicalizzate portando i sostenitori del presidente ad attaccare armati di bastoni e manganelli gli accampamenti creati dai manifestanti davanti al palazzo presidenziale. Quesi hanno risposto e durante la notte del 10 maggio sono usciti per le strade della capitale e hanno dato fuoco alle case di vari politici.
A sud dell’Isola invece alcuni rivoltosi hanno attaccato e distrutto la residenza storica della famiglia Rajapaksa. Le proteste sembrano non volersi placare. Il 10 maggio, nonostante le rassicurazioni da parte del presidente di un cambiamento in seno al governo e a tutto il sistema politico, le occupazioni di strade e piazze sono continuate. Il presidente ha quindi deciso di schierare ancora più forze dell’ordine e infine l’esercito ha ordinato di sparare munizioni vere per evitare “l’anarchia”. Ormai quelli che potevano essere dei manifestanti stufi ed arrabbiati sono diventati un vero e proprio movimento insurrezionale che chiede un cambiamento radicale, un ribaltamento totale delle istituzioni a loro avviso legate direttamente al clan Rajapaksa. Il presidente sta cercando di correre ai ripari annunciando di voler rinunciare alla maggior parte delle sue prerogative, di voler nominare un nuovo premier e di essere disposto ad affidare più poteri al Parlamento.
Per Alan Keenan dell’International Crisis Group, i cingalesi hanno capito che la causa principale del fallimento dello Stato è da attribuire alla famiglia Rajapaksa che adesso dovrebbe prendersi le sue responsabilità e lasciare definitivamente il potere.