La crisi venezuelana ha diverse chiavi di lettura, ma la più importante resta il petrolio, sul quale galleggia. Fattore decisivo dell’impegno Usa, che dura tempo, di rovesciare il governo chavista.

Il mondo libero accusa Nicolas Maduro di aver compresso la libertà. Vero, il caudillo non è un campione di democrazia, come non lo era Gheddafi né Saddam.

Resta che certe inclinazioni autoritarie, proprie di altri leader del mondo, sono guardate con ben altra indulgenza.

Si veda l’Arabia Saudita o il Ruanda, rette da leader graditi all’Impero d’Occidente, nonché primo esportatore di petrolio al mondo e Paese che commercia le immani ricchezze predate alla Repubblica democratica del Congo.

C’è una scena del film Vice, sul potentissimo Dick Chaney, nel quale i capi delle maggiori compagnie petrolifere Usa si presentano al nuovo potente subito dopo la  vittoria, squadernandogli davanti una mappa dell’Iraq sulla quale sono  contrassegnati  i giacimenti petroliferi del Paese. Il resto è storia nota.

Non è difficile immaginare una scena analoga all’indomani dell’elezione di Trump, che subito dopo la vittoria ha intensificato le pressioni sul governo chavista (già martellato sotto l’amministrazione Obama). D’altronde il primo Segretario di Stato, Rex Tillerson, era Ceo della Exxon…

Da decenni gli Stati Uniti cercano di riprendere il pieno controllo del petrolio venezuelano. È giunto il momento di chiudere la partita, facendo leva sul malcontento diffuso e sui passi falsi del caudillo.

In gioco in questo momento non è solo il destino del Venezuela, ma del mondo. Gli Usa hanno visto erodere il loro ruolo globale dal nuovo interventismo russo e dallo sviluppo economico cinese.

Impossessarsi dei più ricchi giacimenti petroliferi del mondo, quelli di Caracas, per Washington è diventato decisivo.

Gli Usa diventerebbero d’incanto il primo produttore di oro nero. In tal modo Washington reputa  di riuscire a fiaccare la Russia, la cui economia si basa sul commercio di tale risorsa energetica.

Non solo, grazie alla nuova leva petrolifera, Washington ritiene di riuscire a rendere insostenibili le pressioni che già oggi esercita sull’Europa perché receda il cordone ombelicale energetico che la lega a Mosca.

In tal modo, i Paesi europei che oggi sognano la fine della tutela atlantica saranno relegati nuovamente al ruolo ancillare a Washington.

Il rilancio dell’Impero d’Occidente avrebbe ovviamente anche ripercussioni nel confronto a distanza con Pechino, dato che il petrolio venezuelano consegnerà nuovi vantaggi a Washington.

Non solo, gli Usa, nonostante il ripiego momentaneo proprio dell’America First, saranno portati a tentare di ripristinare la perduta influenza su aree sfuggite al loro controllo e  allargarla altrove.

Nuova assertività alla quale i suoi antagonisti saranno portati a opporsi con una rigidità maggiore.

Infatti, da quando Cina e Russia hanno rilanciato il loro ruolo, il confronto con gli Stati Uniti si è assestato, al di là dei picchi, su un basso profilo.

In fondo, finora è stato in gioco solo il riconoscimento da parte degli Usa del loro status di grandi potenze e dell’assetto multipolare conseguente.

La primazia energetica Usa darebbe nuovo alimento all’ipotesi unipolare, con conseguente pretesa della totale revoca delle richieste sino-russe e conseguente accettazione irrevocabile dell’ordine mondiale americano.

Nuova pretesa che sposterebbe il confronto sul piano esistenziale. Che non comporta cedimenti. Con rischi accresciuti per la conflittualità globale.

Come per l’Iraq e la Libia, non si tratta di sostenere Maduro, come non necessitava essere fan del crudele Saddam o del Colonnello per guardare con certo sospetto certe nefaste pretese di certi ambiti americani.

Pretese sulle quali esprime dubbi anche il senatore democratico Bernie Sanders, ricordando l’avventurismo Usa in Sud America e le dittature di un passato che è utile non dimenticare.

Si spera in qualche ricomposizione intra-venezuelana, ma oggi appare impossibile.

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