Imprevedibile, eclettico, probabilmente un sognatore, ma primo di tutto un businessman, che fiuta l’affare e ci si butta a capofitto. Donald Trump è così e dovremo abituarci a considerarlo tale. La sua scalata alla Casa Bianca è stata un crescendo rossiniano dove il ritmo delle promesse si è fatto sempre più incalzante, perché aveva capito i punti deboli dell’America profonda su cui poteva investire in termini di consensi. Ha vinto. Il consenso l’ha ottenuto. Tuttavia di molte promesse, di molte minacce, di molte idee, non resta che un ologramma se non addirittura un ricordo vago e cancellato dalla realtà. Del resto l’aveva detto lui stesso il giorno in cui si presentò ai giornalisti annunciando la nuova strategia per l’Afghanistan, “la realtà è diversa una volta che ci si siede nello Studio Ovale”. E così è stato in molti campi. C’è un Trump d’azione, dinamico, che martella l’America di ordini esecutivi e di liberalizzazioni, ma c’è anche un Trump profondamente diverso da quanto ci si aspettasse. A tratti restio ad agire, molto spesso incoerente anche con quanto annunciato, sicuramente imprevedibile. In molti ritengono che questa imprevedibilità sia un bene. Tanti, invece, considerano questa imprevedibilità un vero e proprio tallone d’Achille che sta trasformando gli Stati Uniti in un partner inaffidabile.
Quello che è certo è che il Trump rivoluzionario ha ceduto il passo (in certi casi fortunatamente) a un Trump decisamente più razionale e ponderato. E ci sono alcuni pilastri della sua corsa elettorale che ancora oggi faticano a diventare realtà. Insomma, qualcosa è andato storto, inutile negarlo. Sul fronte interno l’Obamacare e il travel-ban rimangono due spine nel fianco dell’amministrazione. Per una convergenza di opposizione giudiziaria e politica, sia interna che esterna, il presidente Usa si ritrova da un lato una politica migratoria molto meno chiusa e repressiva rispetto a quella desiderata e, dall’altro lato, una riforma sanitaria che fatica a trovare la via del decollo, complice la sfida diretta dei neo-con di McCain su questo fronte.
Sul fronte esterno, sono tanti i punti dell’antico programma di The Donald che hanno mutato radicalmente una volta che il presidente si è insediato alla Casa Bianca. Innanzitutto, che Trump sia un presidente isolazionista, si può ritenere un errore fondamentale di molti osservatori. Pensare che oggi gli Stati Uniti possano ritirarsi dai fronti di guerra e dalla loro influenza sul mondo, e farlo con un’unica amministrazione – quella Trump – è qualcosa di assolutamente fuori discussione. Sono davvero troppi gli interessi in gioco e catastrofiche le conseguenze per una ritirata generale. Trump lo ha capito bene, tanto che in Siria ha lanciato i Tomahawk contro l’esercito siriano, in Afghanistan ha autorizzato una nuova strategia con aumento dei militari nel Paese, in Corea del Nord è in corso un’escalation di tensione e di militarizzazione della penisola coreana, in Africa le forze Usa sono impegnate su più fronti, in Yemen le forze speciali combattono da mesi e a questo si aggiunge il mai sopito rafforzamento della forza Usa in Europa orientale. A questi fronti di guerra, si aggiungono poi i numerosi problemi diplomatici e di guerre latenti con Russia, Iran e Cina. Con il Cremlino si prometteva il miglioramento dei rapporti, mentre adesso, grazie agli scandali e all’opposizione fortissima del deep-State, Usa e Russia si ritrovano nella peggiore crisi diplomatica degli ultimi anni. L’Iran, unica potenza mediorientale a essersi schierata con la Siria e la Russia nella guerra al terrorismo, si ritrova a dover subire le sanzioni degli Stati Uniti e la guerra di Trump a tutto ciò che può avere legami con Teheran. E per quanto riguarda la Cina, l’incendiario Donald contro la via di Pechino alla globalizzazione si è trasformato in un politico molto più accorto, consapevole dei rischi giganteschi che può comportare per l’economia americana una guerra commerciale (e non solo) con Pechino.
Da incendiario a pompiere? Una rivoluzione mancata? Bisogna fare i dovuti distinguo. Che Trump non potesse essere quello delle elezioni, era abbastanza evidente. Nessuno arriva alla Casa Bianca se è effettivamente un rivoluzionario. Ma sbaglia chi lo esalta come chi lo denigra ritenendolo un genio o un incompetente. Probabilmente non è né l’uno né l’altro. Trump è una figura che divide: o lo si ama o lo si odia. E la difficoltà è riuscire a dare un quadro della sua amministrazione che sia scevra il più possibile dalla polarizzazione dello scontro. Forse ha deluso rispetto ai proclami iniziali, soprattutto per quanto riguarda la politica estera. E in particolare, quello che preoccupa, oltre l’eclettisimo, è l’assenza di una strategia chiara. Non si capisce mai se il presidente abbia un piano A, un piano B o se non abbia né l’uno né l’altro. Trump agisce, ma spesso sembra incapace di definire una strategia a lungo termine, e sembra agire più per muovere le acque piuttosto che con un obiettivo di lungo termine. Sia in politica interna, sia in politica estera.
Ma l’America profonda, il suo vero bacino di consenso, lo segue ancora. E da lì può ripartire in questa difficilissima fase della sua amministrazione. Trump può ripartire da lì per riscoprire cosa l’ha condotto alla Casa Bianca e cosa lo sta conducendo a impantanarsi nella politica di Washington, probabilmente molto più difficile e paludosa di quanto potesse credere durante le primarie. È passato solo un anno: di errori ce ne sono stati tanti, ma sono rimediabili. Però Trump deve riscoprire se stesso. Altrimenti la sua solo soltanto una rivoluzione incompiuta. Un tentativo di cambiare il mondo che si è incagliato nelle sabbie mobili della politica e che sarà destinato a etichettarlo come il presidente del fallimento.