Si è adottata la definizione di primavera latinoamericana, con lo stesso approccio superficiale di cui si era parlato di primavera araba nel passato. L’America Latina, eppure, come l’universo arabo, è una realtà complessa e i fenomeni, per quanto presentino elementi comuni, non vanno omologati.

Dal Venezuela, la Bolivia, il Cile e l’Ecuador, al Brasile, la Colombia, l’Argentina e Haiti, un tratto che si è ripetuto è quello della risposta dell’apparato statale nella forma di una violenta repressione dei movimenti sociali. In ugual modo, si è osservato l’uso massiccio dell’esercito che in certe situazioni ha assunto un ruolo decisionale. Ed è altrettanto vero che l’onda delle proteste è stata accompagnata da disubbidienza civile e atti di vandalismo.

Ci sono stati inoltre riferimenti a quello che nel linguaggio divulgativo è diventato “l’effetto contagio” e che in sociologia attiene alla teoria di Sidney Tarrow sui cicli dell’azione collettiva, e il calcolo individuale del rischio, tarato sul volume della partecipazione corale e la sua percezione. Altro denominatore comune sono gli indici di diseguaglianza, nel continente, fra i più alti al mondo. Fin qui, alcune similitudini. I motivi delle mobilitazioni e le cause scatenanti, però, sono spesso differenti.

Varie crisi sono in essenza politiche, e pensando al Venezuela, alla Bolivia, o al Nicaragua in Centroamerica, dove governi progressisti a vocazione autoritaria, eredi di rivoluzioni marxiste, non sono stati capaci di interpretare i mutamenti culturali e generazionali, e le conseguenti aspettative di ampliamento democratico. Una spiegazione parallela è da trovarsi nelle apprensioni delle oligarchie, pezzi chiave del latifondo e l’industria estrattiva, che hanno visto minacciare la propria egemonia, mantenuta salda grazie alla riproduzione di modelli coloniali, e hanno foraggiato opposizioni alla nazionalizzazione dello sfruttamento del petrolio in Venezuela e delle risorse naturali in Bolivia. Ciò si trova alla base della svolta a destra dell’Uruguay, a lungo un bastione e un modello della sinistra latinoamericana, e all’estrema destra del Brasile, post Lula da Silva e Rousseff. L’antagonismo di due forze uguali e contrarie ha cronicizzato questa tipologia di crisi. La miccia è stata accesa da interessi esterni, Stati Uniti e paesi e apparati filo-americani della regione.

Altri casi, invece, sono di taglio più nettamente economico. In stati con garanzie democratiche, e governi conservatori, i cileni hanno preso le strade contro la riduzione del potere d’acquisto, gli ecuadoriani contro l’inefficacia degli interventi per la riduzione della povertà e l’esclusione sociale, gli argentini contro l’incapacità di garantire stabilità monetaria e frenare l’inflazione, in Colombia e Perù contro le privatizzazioni e la corruzione che decurta le risorse pubbliche. L’impatto negativo, segnalato dai cittadini, è devastante e radicato nel tempo, ben riassunto nello slogan della piazza cilena “Non sono 30 centesimi, sono 30 anni”. Le sollevazioni sono state innescate da fattori congiunturali, relazionati con la vita quotidiana delle persone, ma anzitutto dall’arroganza e la prepotenza con le quali le richieste sono state dapprincipio dismesse.

L’autentico fil rouge delle proteste sociali in America Latina è l’atteggiamento storico delle classi dirigenti, che ha dato luogo a uno stato di diritto disfunzionale, e in ciò forse sta la direzione del cambio e la sua strategia. Si sono poste al di sopra della legge, ostentando i propri privilegi, e calpestando la sovranità popolare. Con guadagni smisurati, molte hanno svenduto alle multinazionali e lasciato che il narcotraffico si impadronisse di gangli vitali. In nessun paese, si darà una trasformazione completa e definitiva, se questo nodo non verrà sciolto.

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