Donald Trump spiazza di nuovo tutti, compresi i suoi diplomatici, e accetta il confronto diretto con Kim Jong-un. Il presidente degli Stati Uniti ci sta abituando (e in realtà già ci aveva abituato) a frequenti cambi di direzione e a mosse da “coniglio nel cilindro” che rientravano poco nei ranghi della diplomazia classica. Ma questa volta, sembra che non abbia sorpreso soltanto gli osservatori e l’opinione pubblica, ma anche il suo stesso corpo diplomatico.
Pochissimi erano a conoscenza della decisione di Donald Trump e lo stesso Rex Tillerson, segretario di Stati mai troppo in linea con l’eclettismo del suo presidente, si è trovato quasi a dover accogliere la notizia più che a condividerla. All’inizio la segreteria di Stato americana si era quasi affrettata a raffreddare gli animi dei giornalisti. Poche ore prima dell’annuncio a sorpresa, il segretario di Stato aveva detto: “Siamo molto lontani da effettivi negoziati, dobbiamo essere lucidi e realistici”, aggiungendo di non sapere se “vi siano le condizioni per persino iniziare a pensare a negoziati”.
Poi, dopo un breve lasso di tempo, la notizia che ormai nessuno si aspettava ma che tutti gli osservatori sognavano: lo storico incontro fra il presidente degli Stati Uniti e il leader della Corea del Nord si farà, probabilmente a maggio. E lo stesso Tillerson ha dovuto prenderne atto con una dichiarazione, da Gibuti, che rende abbastanza evidente lo stato dei rapporti fra presidenza e diplomazia.
“È una decisione che il presidente ha preso da solo. Gli ho parlato molto presto oggi su questo e abbiamo avuto un’ottima conversazione”, ha detto Tillerson nel corso di una conferenza stampa, come riporta Reuters. “Il presidente Trump ha spesso dichiarato di essere aperto al dialogo e che intendeva incontrare Kim quando le condizioni fossero state giuste”, ha proseguito. “Credo che l’idea del presidente sia che il momento adesso è arrivato”.
Una resa di Rex alla volontà di The Donald? Sicuramente una presa di coscienza che, ancora una volta, il leader statunitense ha assunto una posizione non conforme ai canoni delle cancellerie interazionali ma soprattutto non in linea con i suoi stessi canali diplomatici.
Non una novità. Semmai una conferma di questo modus operandi di Trump che, se può essere considerato un vantaggio nei casi di buona riuscita delle sue azioni, dall’altro rischia di minare profondamente l’efficacia delle vie diplomatiche Usa, con il rischio che gli interlocutori non sappiano se rivolgersi al presidente o al segretario di Stato per avere un confronto diretto con l’amministrazione americana.
Quello che risalta agli occhi da questa situazione, è che si conferma in sostanza una mancanza di coordinamento, anzi, quasi un reciproco sospetto tra i due pilastri della politica estera statunitense. Perché un conto è avere due uffici che lavorano verso un obiettivo condiviso, un conto è avere un dossier in cui i due rami della politica estera prendono direzioni non opposte ma neanche del tutto convergente.
La Corea del Nord, in questo senso, è esemplare. In passato, sembrava quasi che Trump mettesse a repentaglio gli sforzi diplomatici di Tillerson. Tra tweet offensivi o ironici contro Kim, retorica bellicosa e frasi sulla presunta inutilità dei canali diplomatici con il governo nordcoreano, era The Donald a essere quello che colpiva la via del dialogo mentre Tillerson quello che voleva a tutti i costi trovare un equilibrio.
Ora invece la parti sembrano essersi rovesciate. In questo duetto che assomiglia sempre di più al poliziotto buono e a quello cattivo, è la Casa Bianca ad apparire come la parte dell’amministrazione che si impegna più energicamente al dialogo con Pyongyang, facendo sembrare la diplomazia usa non solo lenta ma anche lacunosa, quasi inutile di fronte alla volontà del presidente Trump.
Una logica che si può evicnere anche da alcuni importanti elementi “burocratici”. L’inviato speciale Usa per la Corea, Jospeh Yun, è andato in pensione lo scorso febbraio e non è stato sostituito. L’ambasciatore americano a Seul non è stato neanche nominato. A molti potranno apparire come semplici ruoli di importanza secondaria, ma in realtà sono segnali abbastanza eloquenti dell’esistenza di un problema tra la presidenza e la diplomazia: Trump si fida molto più di se stesso che dei suoi collaboratori. E questo, per un presidente che deve interloquire con il mondo, può essere un’arma a doppio taglio.