L’Unione europea può congelare i fondi a Polonia e Ungheria se il braccio di ferro sullo Stato di diritto continuerà. In una sentenza odierna dal valore importante la Corte di Giustizia Europea ha garantito la piena legittimità del regolamento sullo Stato di diritto imposto da Bruxelles con cui Varsavia e Budapest sono state a più riprese messe sotto inchiesta e minacciate con procedure di infrazione di vasta portata.

Il ricorso di Varsavia e Budapest era proprio legato al fatto che il regolamento Ue sullo Stato di diritto permettesse all’Ue di dare attuazione alla procedura di infrazione per eventuali violazioni dello Stato di diritto, dell’indipendenza del potere giudiziario e della trasparenza mediatica decurtando i finanziamenti ai Paesi messi sotto accusa. La Corte ha seguito quanto deliberato in un primo momento dall’avvocato generale che a dicembre ha respinto i ricorsi di Varsavia e Budapest, confermando che tale sistema di “condizionalità” era compatibile con i Trattati dell’Ue, che del resto prescrivono i principi democratici come inalienabili dall’architettura Ue. La Corte, che per la prima volta ha letto in diretta video la sentenza,

La mossa ha portata potenzialmente decisiva nei rapporti di poteri interni all’Unione Europea. Sino ad ora Polonia e Ungheria, grazie alle strategie di Jaroslaw Kaczynski e Viktor Orban, si erano sempre mosse sul filo della contraddizione nel rapporto con Bruxelles: fortissime, spesso strumentali critiche, sul piano morale, valoriale e politico dall’altro; grandi vantaggi economico-commerciali grazie al mercato unico e allo sfruttamento dei fondi europei di coesione dall’altro. Come sottolinea Affari Internazionali, “la Polonia è il Paese che beneficia di più in valori assoluti dei fondi di coesione, pari al 2,7% del Pil all’anno nel periodo 2014-2020″, mentre “sovvenzioni e prestiti valgono” per l’Ungheria “il 14% del Pil nazionale”. Questo rappresenta “una leva formidabile per l’economia che nel tempo ha permesso di aumentare rapidamente il reddito pro capite: del 17% dal 2008 al 2019; del 9% in Ungheria”. Tutto ciò ha permesso investimenti e sviluppo funzionali a inserire i Paesi nella catena del valore tedesca dell’industria manifatturiera, soprattutto automobilistica.

Una questione che, complessivamente, vale per tutto il gruppo di Visegrad: tra il 2014 e il 2020 la Polonia ha ricevuto dall’Europa 84 miliardi di euro, la Repubblica Ceca e l’Ungheria circa 23 miliardi, la Slovacchia 15 miliardi. Ma il budget per il periodo 2021-2027 ha ridotto le risorse per questi Paesi e il meccanismo di vincolo dei fondi, compresi quelli dei piani del Next Generation Eu dei singoli Paesi, al rispetto dello Stato di diritto dà all’Unione un’arma fondamentale per colpire il meccanismo politico dei partiti di governo, Diritto e Giustizia a Varsavia, Fidesz a Budapest. Essi si sono a lungo giovati su un triplice meccanismo che ha prodotto un circolo virtuoso: utilizzo dei fondi Ue per rafforzamento economico, potenziamento del welfare investimenti di lungo periodo e spesa pubblica clientelare; narrazione sovranista dell’autodeterminazione contro Bruxelles; utilizzo delle battaglie politiche in Unione Europea come fattore di valorizzazione dell’influenza internazionale. Ora l’Ue ha in mano l’opzione nucleare per fermare questo circuito.

Da tempo, del resto, Bruxelles si stava muovendo in quest’ottica. Fidesz, il partito di Orban, è stato cacciato dalla famiglia popolare europea. Da tempo, inoltre, la squadra di Ursula von der Leyen ha nel mirino Ungheria e Polonia per le riforme della giustizia e l’indipendenza dei media, spesso precaria. Altro fronte di confronto è quello della comunità Lgbt: la Commissione ritiene che Varsavia non abbia risposto in maniera esauriente e completa alle sue richieste di chiarimento sulla natura e sull’impatto delle cosiddette “zone libere dall’ideologia Lgbt”, e a luglio ha aperto un fronte sulle leggi di Orban in materia. A dicembre, poi, i governi di Varsavia e Budapest hanno visto un’anticipazione di quanto potrebbe accadere in futuro, con il blocco dell’anticipo sul Recovery Fund da 4,5 miliardi di euro per la Polonia e un miliardo per l’Ungheria legato proprio alle riforme chieste come raccomandazione: “Per la Polonia”, nota Il Foglio, “il problema fondamentale è l’indipendenza della giustizia e il regime disciplinare dei giudici (questione che comprende anche la supremazia del diritto dell’Ue). Per l’Ungheria i problemi riguardano l’efficacia del sistema giudiziario nella lotta alla corruzione, la trasparenza degli appalti, la prevedibilità del processo decisionale e i meccanismi di audit e controllo di come vengono spesi i fondi dell’Ue”.

Quali conseguenze potrebbe avere questa mossa? In primo luogo, un’accelerazione del braccio di ferro politico. Ma in secondo luogo, soprattutto, un favore indiretto della Commissione alle opposizioni interne e critiche dei regimi politici odierni: a Budapest Peter Marki-Zay si prepara a guidare l’opposizione unita contro Orban al voto di aprile, per la Polonia l’appuntamento del PiS con la resa dei conti è destinato a avvenire nel 2023. Entrare in questa battaglia senza le armi dei fondi Ue potrebbe essere un duro colpo per i governi sovranisti dell’Europa di mezzo.

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