Dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, le questioni delle relazioni tra gli Stati Uniti e il confinante Messico sono state ampiamente incentrate sul discusso “muro” di confine che il Presidente repubblicano sarebbe intenzionato a rafforzare al fine di bloccare l’accesso di migranti illegali e limitare il narcotraffico nelle regioni di confine. Tuttavia, la questione della barriera di confine non esaurisce le intricate relazioni tra i due paesi americani, né al tempo stesso rappresenta l’unica istanza che preoccupa la leadership di Città del Messico.Allo stato attuale delle cose, infatti, il Messico è interessato da una delicata fase di transizione politico-sociale e risulta squassato da numerosi conflittualità e problematiche interne: chi scrive, in precedenza, ha parlato per Gli Occhi della Guerra delle spaventose proporzioni assunte dal conflitto tra il governo centrale e i gruppi narcotrafficanti come il Cartello di Sinaloa e il gruppo dei Las Zetas, strettamente legato al continuo peggioramento delle condizioni di vita di buona parte della popolazione messicana, afflitta da tassi di povertà superiori al 50%, da una continua depressione occupazionale e da disuguaglianze macroscopiche nella distribuzione della ricchezza a cui ha contribuito non poco il North America Free Trade Agreement siglato negli Anni Novanta. Un momento topico e saliente per un Paese che, con l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, si trova un’amministrazione ostile alla guida dello storico partner economico, diplomatico e politico e messo di fronte allo specchio delle sue forti contraddizioni interne. I 2.157 omicidi registrati nel mese di gennaio 2017 danno un’idea delle dimensioni dei problemi del Messico, Paese che vede alcuni Stati federali come Jalisco e Michoacan sfuggire quasi completamente al controllo delle autorità del governo centrale.Trump, in un certo senso, ha fornito da stimolo per avviare un importante dibattito interno nel mondo politico e civile messicano: Rafael Bernal di The Hill ha scritto in un suo articolo che le politiche di Trump nei confronti del Messico hanno contribuito a stabilire un senso di unità nazionale e a rinsaldare il fragile e traballante sentimento patriottico interno, ma al tempo stesso, proprio a causa di questo fatto, evidenziato tutte le carenze della leadership del Presidente Enrique Peña Nieto, ritrovatosi ad essere una vera e propria “anatra zoppa”, con solo il 12% di consensi a un anno e mezzo dalla fine del suo mandato. Tanto le forti proteste e le marce popolari che a metà febbraio hanno interessato oltre 70 gruppi di cittadini riunite nella coalizione Vibra Mexico quanto i veementi gasolinazos causati dai bruschi rincari sul prezzo dei carburanti hanno mostrato al mondo lo scontento di una nazione che, criticando le pressioni esercitate dal vicino settentrionale, di riflesso contesta una classe politica sempre più screditata dalle sue azioni e dalle ancora più gravi inazioni del recente passato. Già nel giugno 2014 Andreas Knobloch del Die Welt aveva individuato nella stagnazione politica, nell’assenza di misure volte a rilanciare l’occupazione e nel dilagare della criminalità e dell’economia sommersa i principali fattori che frenavano lo sviluppo del Paese.La somma tra la percezione di ingerenze ostili da parte degli Stati Uniti, la passività di una classe politica ritenuta inetta e un quadro macroeconomico e geopolitico sempre più incerto sta contribuendo a generare in Messico un graduale slittamento degli equilibri politico-istituzionali che potrebbe, sul medio periodo, favorire l’ascesa di Andrés Manuel Lopez Obrador, ex Governatore della capitale e due volte candidato alla presidenza che ripone forti speranze sul voto presidenziale del 2018. Lopez Obrador, leader del Movimiento Regeneración Nacional (MORENA), accusa primariamente la classe politica che, trasversalmente, viene considerata come la rappresentante di un “potere mafioso intento a distruggere la nazione” e come la fonte della svendita del Paese al sistema neoliberale. Accuse che ricalcano quelle lanciate dall’economista Raj Patel, che ne I signori del cibo ha segnalato il ruolo giocato dalle grandi multinazionali alimentari nella devastazione delle prospettive economiche di centinaia di migliaia di campesions messicani, e che prefigurano il rilancio delle prospettive dell’ideologia politico-culturale del “socialismo del XXI secolo” latinoamericano in un Paese ove esso non ha a lungo attecchito. Sulla scia di Chavez, del boliviano Morales, dell’ecuadoregno Correa e del nicaraguense Ortega, Lopez Obrador fa della redistribuzione economica di redditi e ricchezze il suo cavallo di battaglia. Sovranità nazionale e interesse popolare si uniscono nel messaggio programmatico di un politico che, allo stato attuale delle cose, rappresenta sicuramente l’elemento di rottura nel panorama messicano e propone una piattaforma sociale decisamente accattivante per molti messicani, sempre più scettici sulle capacità di leadership di Enrique Peña Nieto. Lopez Obrador, inoltre, è un convinto sostenitore delle possibilità del Messico di potersi inserire come attore nella dialettica multipolare: il ruolo strategico del Paese potrebbe, infatti, renderlo interessante per attori geopolitici chiave come Cina e Russia, con i quali il Messico è intento a un dialogo di primaria importanza per i suoi sviluppi futuri, sempre più latinoamericani e sempre meno rivolti verso un Nord che presto potrebbe essergli praticamente precluso.
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