È dalla sera del 9 agosto che per le strade di Minsk, e di numerose altre città bielorusse, si combatte. Il motivo dei disordini è l’esito elettorale che ha riconfermato Aleksandr Lukashenko alla presidenza del Paese e che Svetlana Tikhanovskaya e i suoi seguaci non hanno riconosciuto, ritenendo sia il frutto di brogli.

Il sospetto che dietro l’insurrezione possa esserci una regia straniera si fortifica di pari passo con lo sviluppo degli eventi e, del resto, nell’epoca delle rivoluzioni colorate e delle guerre per procura si tratta di una pista che non andrebbe mai esclusa a priori. Le azioni di Polonia e Lituania, in particolare, sembrano suggerire che le accuse lanciate nei loro confronti da parte di Lukashenko potrebbero non essere del tutto infondate e le ragioni per volere un cambio di regime sono tanto numerose quanto rilevanti.

L’importanza della Bielorussia

Il mondo russo ha iniziato a restringersi all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica e il Cremlino non ha potuto fare nulla per fermare l’accerchiamento occidentale, essendo caduto preda simultaneamente dei separatismi etno-religiosi, dell’anarchia sociale e di una tremenda crisi economica. Fra l’inizio degli anni ’90 e la prima parte degli anni 2000, la Russia ha assistito inerte all’inglobamento nell’orbita euroamericana dell’intero ex patto di Varsavia e all’allargamento ad Est della cortina di ferro, sullo sfondo di una serie di rivoluzioni colorate che ne hanno comportato la quasi totale estromissione dai Balcani e del Caucaso meridionale.

L’ultimo grande traguardo in ordine cronologico è stata Euromaidan, l’evento spartiacque che ha sancito l’inizio di una nuova guerra fredda fra l’Occidente e la Russia, spingendo quest’ultima a ricercare la costruzione di un partenariato con la Cina per alleggerire il peso del regime sanzionatorio e per proteggere ciò che resta del mondo russo per mezzo della condivisione del potere.

Dal 2014 ad oggi, Mosca e Pechino hanno agito all’interno dello spazio postsovietico in maniera coordinata e seguendo una logica di ripartizione ben definita: la prima occupandosi di sicurezza e diplomazia, la seconda occupandosi di economia. In questo modo, la Russia ha evitato che l’influenza occidentale si estendesse eccessivamente e pericolosamente in Bielorussia, in Serbia, in Armenia, in Moldavia, nell’Asia centrale ex sovietica e in altri territori.

Contrariamente alla Serbia, che è completamente accerchiata da parte dell’Alleanza Atlantica e il rischio di sforzi egemonici è stato ridotto a zero per mezzo di un durissimo ridimensionamento geografico iniziato con le guerre iugoslave e conclusosi con il referendum sull’indipendenza del Montenegro del 2006, la Bielorussia riveste un’importanza geostrategica di gran lunga superiore agli occhi dell’Occidente.

In primo luogo, dal dopo-Euromaidan, Minsk è l’ultimo ostacolo all’accerchiamento definitivo della Russia nel versante europeo, ed è in questo contesto che si inquadra il riorientamento dell’agenda estera della Casa Bianca dall’Ucraina (il cui protettorato è stato affidato a due alleati fedeli, Polonia e Turchia) alla Bielorussia.

Se l’insurrezione post-elettorale dovesse trasformarsi in una rivoluzione colorata in stile Euromaidan, portando all’effettiva caduta di Lukashenko, si assisterebbe alla presa del potere da parte di una nuova dirigenza politica, liberale e filo-occidentale, della quale la Tikhanovskaya è la migliore espressione, che trasporterebbe il Paese fuori dalla sfera d’influenza russa in tempi rapidi.

I rapporti fra Lukashenko e Vladimir Putin non sono mai stati idilliaci, e il braccio di ferro dell’ultimo anno ha allontanato significativamente i due Paesi, ma l’alternativa all’incostanza dell’ultimo dittatore d’Europa è uno scenario Ucraina. Infatti, l’opposizione rappresentata dalla Tikhanovaskaya propone un’opera di riciclo integrale della vecchia classe politica ed una rottura diplomatica con il passato, ovvero con la Russia; perciò infiltrarsi nel processo di transizione potrebbe rivelarsi controproducente, essendo le possibilità di riuscita inferiori alle prospettive di fallimento.

Anche assumendo che la crisi in corso possa produrre l’effetto inaspettato di portare ad un disgelo con Minsk, spingendo Lukashenko a rivalutare la politica dell’apertura ad Ovest, a quel punto entrerebbe in gioco un altro fattore: i disordini hanno palesato l’impopolarità del presidente e la volontà da parte della società di un cambiamento; supportandolo, il Cremlino assocerebbe la propria immagine ad un regime visto con insofferenza dalla nuova generazione.

In qualunque direzione Mosca sceglierà di muoversi, dovrà avere la consapevolezza che la Bielorussia è un campo minato e che ogni mossa potrebbe essere l’ultima.

La resurrezione della confederazione polacco-lituana

All’indomani della prima serata di scontri, Lukashenko è apparso in pubblico, invitando l’opposizione ad avviare un dialogo costruttivo per il benessere nazionale e reiterando la convinzione che dietro l’insurrezione, e le proteste dei mesi precedenti, vi sia una mano straniera.

Secondo quanto denunciato dal presidente, a cavallo fra il 9 e il 10 agosto, le guardie di frontiera avrebbero impedito dei tentativi di superamento illegale del confine da parte di cittadini polacchi, russi e ucraini, intenzionati a “fare una Maidan” in Bielorussia, mentre i servizi segreti avrebbero intercettato comunicazioni tra i manifestanti e l’estero, in particolare da Gran Bretagna, Polonia e Repubblica Ceca.

Inoltre, la stessa notte, nei punti caldi di Minsk sarebbe stata accertata la presenza di molti professionisti del disordine provenienti da Russia e Ucraina, i quali avrebbero svolto due mansioni in particolare: combattere contro la polizia e tentare di trascinare la capitale nel caos per mezzo di azioni di alto livello, come l’appiccamento di incendi nelle aree centrali.

Gli eventi accaduti dopo le elezioni sembrano corroborare le denunce di Lukashenko di una regia europea dell’insurrezione. L’Unione Europea ha iniziato a minacciare il governo di Minsk di introdurre sanzioni per via dei brogli e del modo in cui stanno avvenendo affrontati i disordini, mentre Polonia e Lituania stanno fornendo supporto concreto all’opposizione.

L’esecutivo polacco ha assunto e guidato l’iniziativa politica in sede comunitaria, smuovendo gli organi europei e i ministri degli esteri dei 27, e le principali città del Paese hanno iniziato a tingersi simbolicamente dei colori dell’antica bandiera bielorussa, quella sventolata dai manifestanti antigovernativi; mentre in Lituania ha trovato rifugio la Tikhanovskaya, fuggita da Minsk dopo la seconda serata di scontri.

Se esistesse un piano per un cambio di regime in Bielorussia, Polonia e Lituania sarebbero gli strumenti ideali ai quali delegare le operazioni e l’esercizio del potere sul futuro protettorato euroamericano. Minsk non dispone di grandi risorse naturali, ed è un netto importatore di beni energetici e di altra natura da Mosca, ed un’eventuale rottura darebbe vita ad un’inevitabile recessione. È a questo punto che potrebbero entrare in gioco Varsavia e Vilnius: aprendo ai cittadini bielorussi i propri mercati del lavoro, in crescita ma carenti di nuova manodopera, e approfittando del nuovo clima d’investimento per amalgamare le proprie economie a quella di Minsk.

Quest’ultimo punto è estremamente rilevante, perché da diversi anni le classi dirigenti di Varsavia e Vilnius stanno portando avanti un’agenda comune tesa alla costruzione di un blocco geopolitico, culturale ed economico intra-europeo, esteso dal Mar Baltico al Mar Nero, iconicamente rappresentato dall’E40. Mentre la Polonia sta concentrando gli sforzi sulla sponda meridionale, rappresentata dall’alleanza Visegrad e dall’Ucraina, la Lituania sta invece guidando la fusione dell’area baltica; l’unico ostacolo alla realizzazione del progetto, una confederazione polacco-lituana 2.0, è proprio la Bielorussia.

Colpire Minsk per attaccare (anche) Pechino

Un cambio di regime filo-occidentale a Minsk non avrebbe ripercussioni geopolitiche ed economiche di unica rilevanza per Mosca, perché il posizionamento del Paese all’interno della sfera d’influenza russa è anche nell’interesse di Pechino.

Nell’agenda estera di Xi Jinping la Bielorussia ricopre un ruolo di primo piano poiché è vista come il punto di connessione ideale tra l’Unione Economica Eurasiatica e la Nuova Via della Seta e, inoltre, è la chiave di volta con cui accedere alla periferia orientale dell’Unione Europea. La rilevanza è tale che è possibile comprenderla soltanto dando uno sguardo ai numeri e ai fatti che hanno caratterizzato la collaborazione sino-bielorussa negli anni recenti.

Nell’agosto del 2019 sono state finalizzate le trattative per la costruzione di un gigantesco stadio da calcio a Minsk, i cui costi di realizzazione saranno coperti interamente da Pechino. Quel dono costoso, circa 180 milioni di dollari, è stato pensato per suggellare il partenariato in divenire e si tratta di uno strumento al quale la diplomazia cinese ha fatto ampiamente ricorso nel Sud globale.

I cantieri dello stadio dovrebbero concludersi nel 2023 ed altri sono stati aperti in tutto il territorio nazionale, perché le compagnie cinesi hanno letteralmente invaso la Bielorussia e ne stanno riscrivendo l’intera mappa urbana e la rete infrastrutturale, edificando e/o rinnovando strade, ospedali, dormitori, complessi abitativi, parchi, ferrovie e interi quartieri.

Il più importante dei progetti di Pechino nel Paese non sarà il maxi-stadio di Minsk, ma il parco industriale Cina-Bielorussia, anche conosciuto come il China-Belarus Great Stone Industrial Park. Esteso su una superficie di 112 chilometri quadrati e geostrategicamente posizionato tra Minsk, l’aeroporto internazionale e l’autostrada Mosca-Berlino, il parco è stato progettato per diventare la centrale elettrica dell’economia nazionale, la Silicon Valley dell’Europa Orientale, e su di esso sarà in vigore un regime economico speciale, funzionale all’attrazione di investimenti e cervelli da tutto il mondo.

Si tratta del singolo progetto più costoso che le banche cinesi abbiano mai finanziato all’estero: fino ad oggi sono stati messi a disposizione cinque miliardi di dollari. I dettagli dell’accordo sulla costruzione e sulla gestione della zona economica speciale sono stati studiati in maniera tale da consentire a Pechino un ritorno economico elevato, costante e spalmato nel lunghissimo termine.

Le corporazioni cinesi che scelgono di delocalizzare le proprie attività nel parco godono di numerosi diritti, fra i quali un’esenzione dal pagamento delle tasse pluridecennale, la possibilità di acquistare porzioni di terreno, esercitando su di essi una proprietà privata esclusiva, e di affittarle con contratti di durata quasi centennale. Il regime fiscale estremamente morbido ha già attratto le prime multinazionali, come Huawei e ZTE, che hanno costruito dei centri di ricerca e sviluppo.

Il 2018 è stato l’anno più intenso dal punto di vista della collaborazione bilaterale. I due governi hanno siglato degli accordi di cooperazione nei campi dell’economia, della tecnologia, della scienza, della cultura, della difesa e della sicurezza, è entrato in vigore un regime di liberalizzazione dei visti per favorire il turismo, e sono stati implementati i primi programmi di scambio studenteschi, linguistici e culturali.

Quello stesso anno, inoltre, hanno avuto luogo altri tre eventi significativi: Pechino è diventata il terzo partner commerciale di Minsk, delle truppe cinesi hanno sfilato per la prima volta durante la Giornata dell’Indipendenza della Bielorussia, e nel corso di un discorso alla nazione Lukashenko aveva proclamato la Cina “un partner strategico allo stesso livello della Russia”.

Prima di Euromaidan, attaccando Minsk sarebbe stato inflitto un colpo esiziale soltanto a Mosca ma oggi, paradossalmente, i danni più gravi potrebbe subirli Pechino, perché se un nuovo esecutivo filo-occidentale dovesse estromettere le banche e le imprese cinesi dal Paese, e agire sul parco industriale, l’improvvisa perdita dei miliardi di dollari investiti sarebbe la potenziale fonte di bancarotta per tutti gli attori coinvolti.





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