Vladimir Putin è colui che ha assunto il potere all’apice della stagione di turbolenze sociali ed economiche che scossero la Federazione russa a cavallo fra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. A lui il merito di aver salvato il Caucaso settentrionale e la regione del Volga dalla deflagrazione, ponendo fine ad un decennio di insurgenza e terrorismo, di aver riportato l’economia sul viale della crescita e, soprattutto, di aver reintrodotto la Russia nell’alveo dei grandi protagonisti delle relazioni internazionali.

Figura tanto affascinante quanto divisiva anche all’interno della stessa Russia, Putin verrà ricordato dai posteri per una moltitudine di ragioni: da quelle menzionate poc’anzi all’aver restituito Mosca al proprio legittimo destino, cioè quello di essere la Terza Roma, passando per l’onere di aver dovuto affrontare il risveglio dal sonno della guerra fredda con l’Occidente. In quest’ultimo caso, a lui il riconoscimento per aver evitato che la Siria della famiglia Assad e il Venezuela di Nicolas Maduro seguissero il fato dell’Iraq di Saddam Hussein e della Libia di Mu’ammar Gheddafi, ma a lui anche una serie di gravi responsabilità: dalla “perdita” dell’Ucraina alla caduta del monopolio russo sull’intero spazio postsovietico.

Numeri e fatti dissonanti alla mano, la domanda sorge spontanea: Putin, già soprannominato “lo zar” dalla grande stampa occidentale, verrà ricordato dai posteri come un padre fondatore alla Pietro il Grande o come una vittima del fato alla Alessandro II? Nell’impossibilità di prevedere il futuro, cerchiamo di apprendere dal passato e di leggere il presente: questo è quanto accaduto durante l’era Putin tra Ucraina e Moldavia.

Il prezzo della Crimea

Sull’Ucraina, più volte al centro della cronaca per via dei conflitti nel Donbass e per la Crimea, è stato scritto tanto, e spesso con occhi filtrati dall’ideologia. Cercheremo di dare un quadro generale per spiegare perché la Russia ha fondamentalmente già perso quel Paese pur avendo inferto due duri colpi, seppure con esiti opposti.

Tutto cominciò con la cosiddetta Rivoluzione Arancione del 2004, che si originò anche per via delle fragili condizioni politiche ed economiche dell’Ucraina di quel tempo. Il risultato delle elezioni, avvenute quell’anno, che videro Viktor Yanukovych, filorusso, vincitore, vennero duramente contestate con l’accusa di brogli. Questa frode elettorale spinse Viktor Yuschenko, l’altro candidato e filoeuropeo, a chiedere ai propri sostenitori di scendere in piazza e protestare. Le violenti proteste portarono a nuove elezioni che, nel dicembre 2005, sancirono la vittoria di Yuschenko. In questo modo l’Ucraina si avvicinò all’Europa, tanto da volerne chiedere l’adesione, e soprattutto alla Nato.

Ma Yanukovych, sostenuto palesemente da Mosca, non era ancora fuori dai giochi. Nelle elezioni presidenziali del 2010 ottenne la vittoria contro Yulia Timoshenko (anche lei una “rivoluzionaria arancione”), che venne arrestata un anno dopo con l’accusa di abuso di potere per uno scandalo coinvolgente Gazprom. Yanukovych chiarì subito la sua linea filorussa: l’Ucraina abbandonò i piani di adesione a Nato ed Unione Europea. Nel 2013, la popolazione, sobillata anche qui da agenti esterni, scese nuovamente in piazza manifestando a favore dell’Europa e contro l’amministrazione Yanukovych. Il governo cercò di arginare le rivolte emanando un pacchetto legislativo composto da 12 leggi, cosiddette anti-protesta, ma ormai si era scatenato un meccanismo perverso che condusse, a febbraio 2014, ad una vera e propria rivolta: Euromaidan. La sommossa, sanguinosa e con la presenza di fazioni estremiste, non fu vana: le leggi anti-protesta furono rimosse e il presidente Yanukovych lasciò il Paese.

Le nuove elezioni del maggio 2014 videro vincitore Petro Poroshenko, che riprese una posizione molto più prona all’Occidente riaprendo nel contempo alla possibilità di adesione alla Nato. Davanti a questa possibilità il Cremlino agì prontamente per cercare di mettere al sicuro quello che restava dei suoi interessi strategici nel Paese, ovvero la base navale di Sebastopoli. Sempre nel 2014, e con un colpo di mano magistrale, la Russia mette in pratica la dottrina Gerasimov sulla guerra ibrida e con un’invasione “non ufficiale” (ricorderete i famosi “omini verdi”, anche definiti “gentili”) preceduta e affiancata da una massiccia campagna di conquista “dei cuori e delle menti” che ha utilizzato per la prima volta anche gli strumenti di comunicazione di massa online, si impadronisce manu militari della penisola di Crimea.

Effettuato il putsch, le autorità locali (filorusse) decisero di indire un referendum sull’autodeterminazione della penisola e la conseguente scissione dall’Ucraina. Il referendum rispecchiò la volontà popolare (secondo le fonti russe più del 96% della popolazione votò per l’annessione alla Russia), ma non venne riconosciuto dalla maggior parte della comunità internazionale. Come atto finale di questa operazione di estensione territoriale, il 18 marzo 2014, la Repubblica di Crimea e la Federazione Russa firmarono il trattato per l’annessione della penisola alla Federazione. Il giorno dopo, le forze armate ucraine vennero ritirate dalla penisola, segnale indicativo del fatto che il processo non poteva più essere fermato. Oggi, il territorio è definito della Federazione come “circondario federale di Crimea”, costituito dalla Repubblica di Crimea e dalla città federale di Sebastopoli.

La questione Donbass

Se la Crimea è stato un colpo magistrale, così non lo è stato il Donbass. Qui il meccanismo messo in atto per la prima volta nella penisola si inceppa, e le regioni di Donetsk e Lugansk, nonostante si siano successivamente autoproclamate repubbliche autonome, continuano a restare legate al governo di Kiev, che non ha affatto ritirato il suo strumento militare come ha fatto in Crimea.

In Donbass, nonostante anche qui la Russia sia intervenuta prima in modo non ufficiale poi quasi apertamente (anche se inizialmente mandando avanti i “contractor” del gruppo Wagner), ci sono stati e continuano ad esserci combattimenti tra le due fazioni, cosa che non è avvenuta in Crimea: Kiev, da questo punto di vista, ha “imparato la lezione” e non ha commesso lo stesso errore due volte, sebbene la situazione nella regione possa definirsi di completo stallo, in quando gli accordi di Minsk, che prevedono il cessate il fuoco e la definizione di una road map per la risoluzione del conflitto, sono ad un punto morto.

Qui le ostilità cominciano poco più un mese dopo gli avvenimenti in Crimea, il 6 aprile 2014, quando le forze armate separatiste, supportate dal governo russo, occuparono le istituzioni locali delle regioni di Donetsk, Lugansk e Karkiv. L’occupazione venne preceduta da proteste popolari pro-Russia, abilmente orchestrate dal Cremlino, che così facendo credeva che Kiev, ancora alle prese con lo shock per la Crimea, non sarebbe stata capace di “parare il colpo”. L’oblast di Donetsk fu proclamato Repubblica Popolare il 7 aprile, mentre quello di Lugansk il 27, ottenendo entrambi l’indipendenza (anche qui non riconosciuta) l’11 maggio con un referendum.

La risposta militare ucraina, inizialmente inefficace, diventa più decisa col passare del tempo tanto da suscitare l’intervento russo, sino a giungere ad una situazione di stallo militare che porta ai già citati e inefficaci accordi di Minsk. L’aggressione russa – perché tale è stata –, se possibile, ha spinto ancora di più l’Ucraina nelle braccia della Nato, che oggi ha ottenuto uno status simile a quello della Georgia di “osservato speciale” per il suo ingresso nell’Alleanza, ma, per assurdo, proprio l’attuale situazione di conflitto irrisolto nel Donbass è l’ostacolo maggiore verso questa prospettiva: un conflitto aperto, sebbene “congelato”, è contrario ai requisiti per l’ammissione (che spaziano anche sino alla stabilità del regime democratico), e pertanto, paradossalmente, Mosca potrebbe avere più interesse a mantenere questo status quo che a risolvere la questione del Donbass.

L’Ucraina, infatti, al pari della Georgia, è ormai persa: la Russia infatti non ha “guadagnato” la Crimea, ma ha perso il Paese che storicamente rappresenta la sua porta di ingresso meridionale, per questioni prettamente geografiche. Basta dare uno sguardo ad una mappa per notare che dal confine con la Polonia sino a quello con la Russia, passando per Kiev e Karkiv, il territorio è quasi del tutto pianeggiante con la presenza di un solo ostacolo naturale, rappresentato dal fiume Dnepr. Un ostacolo che non è servito a frenare le divisioni corazzate tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale, peraltro, ed i russi se lo ricordano ancora perfettamente. Nella mente degli inquilini del Cremlino, sin dai tempi degli Zar, questa particolare problematica era ben viva: la Russia, infatti, per difendere i suoi confini occidentali, proprio per l’assenza di barriere naturali non ha, storicamente, potuto far altro che espanderli per cercare di frapporre più “terreno” possibile tra Mosca ed i territori “al di qua” degli Urali – cuore pulsante della Russia – ed un nemico invasore.

La questione Moldavia

Il 2020 è stato l’anno della svolta per la piccola ma pivotale Moldavia, uno storico avamposto del Cremlino che, complici la fine della guerra fredda e l’albeggiare dell’epoca multipolare, ha assunto la forma di un huntingtoniano stato in bilico (a metà tra Occidente, Russia e Turchia) il cui fato sembra essere quello dell’ingresso nel campo occidentale.

La rilevanza di questo piccolo Paese incuneato tra Romania e Ucraina è data da tre elementi: la posizione geostrategica, la presenza di minoranze strumentalizzabili per minare la stabilità regionale e, infine, l’essere un punto di snodo centrale per i traffici leciti e illeciti che avvengono tra l’estrema periferia orientale dell’Unione Europea e lo spazio postsovietico. Avere il controllo dei punti caldi del Paese, come la Transnistria e la Gagauzia, equivale a possedere una leva funzionale al condizionamento della politica domestica ed estera del governo centrale; perciò la Russia ha stabilito una presenza nella prima regione e la Turchia ha costruito una sfera d’influenza sulla seconda.

La Russia sta perdendo il controllo della Moldavia perché, molto semplicemente, si è ritrovata ad aver affrontare una competizione modellata sul “tutti contro uno” che vede il coinvolgimento di Romania, Turchia, Stati Uniti, Germania e organizzazioni internazionali come Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Bucarest sta provando ad accelerare il processo d’integrazione del proprio vicino nell’Ue tramite lobbismo, diplomazia ed economia e, soprattutto, sta investendo in cultura, cooperazione allo sviluppo e istruzione con il duplice obiettivo di derussificare la popolazione e incoraggiare le nuove generazioni a sposare l’idea della rumenosfera, ossia della Grande Romania.

Bruxelles e Washington, invece, hanno ridotto a livelli critici la dipendenza di Chișinău da Mosca a mezzo di accordi commerciali, investimenti, maxi-prestiti e grandi opere. I più importanti traguardi delle due potenze sono stati tagliati l’anno scorso e sono, rispettivamente, la realizzazione del gasdotto Iași-Ungheni-Chișinău e l’intercessione presso il FMI ai fini dello sblocco e dell’invio di un maxi-prestito da oltre 200 milioni di dollari al governo moldavo.

La questione dello Iași-Ungheni-Chișinău è meritevole di ulteriore approfondimento. Lungo centoventi chilometri e realizzato con il contributo della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), il gasdotto è stato progettato con l’obiettivo specifico di emancipare la Moldavia dal gas russo ed è stato inaugurato lo scorso agosto. Il canale di trasporto, ampiamente pubblicizzato da Chișinău come il salvavita che entrerà in funzione “in caso di problemi sulla rotta tradizionale”, ossia la rete della Gazprom, è in grado di soddisfare fino al 75% del fabbisogno medio moldavo e transnistriano e fino al 60% del loro consumo medio durante i mesi freddi.

Vi sono, infine, Berlino, che ha investito e sta investendo nel settore idrico moldavo più di ogni altra nazione al mondo, facendo dell’acqua un instrumentum regni con il quale ritagliarsi una sfera d’influenza all’interno del Paese, e Ankara, il cui dinamismo irrefrenabile ha condotto al conseguimento di risultati di rilievo sia a Chișinău che a Comrat, capoluogo della Gagauzia.

Oggi, 2021, la Turchia è il settimo investitore ed il settimo partner commerciale della Moldavia e contribuisce in maniera significativa alla produzione del benessere e alla vitalità del mercato del lavoro per via della presenza sul territorio di circa 1.200 imprese. La Sublime Porta, inoltre, ha giocato un ruolo da coprotagonista nella guerra degli aiuti sanitari combattutasi in Moldavia, posizionandosi dietro a Russia e Cina per quanto riguarda l’impegno complessivo ma troneggiando in una regione: la Gagauzia.

Nominata oramai per la terza volta, è giunto il momento di spiegare brevemente che cosa sia la Gagauzia. Trattasi di una regione autonoma della repubblica moldava abitata dai gagauzi, un popolo turcico ivi stanziatosi tra il 12esimo e il 13esimo secolo, dalla quale ebbe inizio la breve stagione di separatismo che colpì la nazione all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica. Le autorità gagauze, infatti, dichiararono la propria indipendenza nell’agosto 1991 – ossia un mese prima che la più celebre Transnistria facesse lo stesso – salvo poi abbandonare l’agenda secessionista in cambio di una vasta autonomia.

Un riepilogo della due-giorni in Moldavia dello scorso agosto dell’influente ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, può essere utile a comprendere quanto sia marcata la presenza della Sublime Porta in questo stato in bilico. Il primo giorno di lavoro era stato utilizzato per partecipare al primo incontro del Gruppo congiunto per la pianificazione strategica – uno dei frutti maturati dall’elevazione dei rapporti bilaterali al livello di partenariato strategico –, e il secondo era stato impiegato per prendere parte all’attesissima inaugurazione del consolato turco a Comrat, la cui realizzazione era stata chiesta a gran voce dalla popolazione.

Perché l’inaugurazione di un consolato dovrebbe essere importante? Il punto è che la Gagauzia è stata a lungo un feudo russo al pari della Transnistria, ma la situazione è cambiata radicalmente da quando Recep Tayyip Erdogan ha deciso di darle priorità all’interno della propria agenda estera, istruendo l’Agenzia Turca per lo Sviluppo e la Cooperazione Internazionale (TIKA) affinché si occupasse di riscriverne la mappa urbana, dei servizi e delle infrastrutture. Qui la Tika ha costruito nuove scuole, ospedali e strade, rinnovato interi quartieri, contribuito ad incrementare l’accesso della popolazione all’acqua e all’elettricità e, ultimo ma non meno importante, ha dato impeto ad un processo di nazionalizzazione delle masse basato sulla somministrazione di corsi di lingua gagauza e sulla promozione di iniziative e programmi culturali miranti ad instillare negli abitanti la convinzione che siano parte integrante del mondo turco.

In sintesi, la questione Transnistria si è rivelata utile a rallentare l’inglobamento della Moldavia nella sfera d’influenza euroamericana, ma il congelamento in toto del processo non è stato possibile e la sequela di eventi dell’anno passato ne è la dimostrazione. Perché il 2020 è stato l’anno del gasdotto Iași-Ungheni-Chișinău, del consolato turco a Comrat, dell’attivismo statunitense e della diplomazia idrica tedesca, ma è stato, anche e soprattutto, l’anno dello storico insediamento alla presidenza di una europeista, Maia Sandu, la cui vittoria ha assestato un colpo quasi letale al sistema di potere ruotante attorno al socialista e filorusso Igor Dodon.





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