Le elezioni dell’Assemblea Costituente del Cile si sono concluse con la netta vittoria della sinistra radicale. Le coalizioni Apruebo Dignidad e la Lista del Popolo, che raccolgono quella galassia politica che va dai comunisti ai verdi passando per i socialisti radicali filo-venezuelani, si sono aggiudicate ben 54 seggi sui 155 a disposizione e grazie al sostegno dei candidati indipendenti potrebbero influenzare, pesantemente, la scrittura della prossima Costituzione. Deludente, invece, il risultato conseguito tanto da Vamos por Chile, aggregazione politica di centrodestra guidata dal presidente Sebastián Piñera, che non è andato oltre i 37 seggi quanto dalla Lista de Apruebo, formata da socialdemocratici moderati, che si è fermata a 25 scranni. Ogni articolo della nuova Costituzione dovrà essere approvato dai due terzi dei delegati ed il centrodestra ha perso la possibilità di esercitare il diritto di veto sul nuovo documento che, nelle intenzioni dei radicali, dovrebbe sradicare quel modello neoliberale previsto dalla Costituzione voluta dal Generale Pinochet nel 1980. Il voto cileno è frutto di una crisi di sistema nata nell’ottobre del 2019 in seguito alle proteste di piazza sviluppatesi contro le ineguaglianze perpetrate dall’ordine esistente. La risposta della classe politica, dopo una lunga fase interlocutoria, è stata quella di coinvolgere la popolazione nella stesura di un nuovo documento che, paradossalmente, potrebbe segnare la scomparsa dei moderati.
La sinistra radicale del Perù
Il Cile è diventato una delle nazioni più ricche dell’America Latina nel corso degli ultimi decenni ma questo sviluppo non ha evitato le problematiche derivanti dalla sua società non equa. L’ascesa dell’estrema sinistra potrebbe dunque essere il sintomo di un problema più ampio e che coinvolge anche altre nazioni dell’America Latina a partire dal Perù. Qui il primo turno delle elezioni generali, svoltosi l’11 aprile, ha visto l’affermazione di Pedro Castillo, un candidato semi sconosciuto e progressista che è arrivato al primo posto con il 19% dei voti e che sfiderà al ballottaggio la veterana Keiko Fujimori. La vittoria di Castillo potrebbe essere stata favorita dalla tipica frammentazione politica del Perù. Basti pensare, infatti, che ben 18 candidati appartenenti a partiti diversi hanno preso parte al primo turno delle consultazioni e che le schede nulle o lasciate in bianco sono state circa due milioni.
La frammentazione non è, però, l’unica spiegazione possibile e nemmeno la più esaustiva. La tensione sociale sviluppatasi nel 2020 a causa della pandemia ha offerto terreno fertile alle alternative radicali ed ha dato vita a gravi crisi economiche e sociali. Le ricadute economiche derivanti dal lockdown hanno esacerbato l’instabilità del Paese ed hanno evidenziato le deficienze dei servizi pubblici. La contrazione del Pil nazionale ha inoltre provocato un forte aumento di povertà e disoccupazione, ha favorito l’organizzazione degli scioperi ed ha demolito l’immagine pubblica della classe politica. Si è trattato, dunque, di un vero e proprio disastro che ha colpito perlopiù le aree rurali ed i più poveri, proprio quelli che hanno votato in massa Castillo.
La sinistra latinoamericana non è morta
La sinistra sudamericana sta mostrando segnali di ripresa dopo essere stata quasi annientata dai conservatori nel corso degli ultimi anni. Alberto Fernandez, peronista e moderato, ha sconfitto l’uscente Mauricio Macri alle elezioni presidenziali argentine dell’ottobre 2019. Macri ha pagato per le politiche di austerità implementate e per la crisi economica che ne è derivata. Nell’ottobre del 2020 il Movimento al Socialismo è tornato al potere in Bolivia grazie alle prime elezioni svoltesi dopo l’estromissione di Evo Morales mentre nel 2019 si sono svolte proteste in Colombia contro la brutalità della polizia ed anche contro il presidente Ivan Duque.
Il futuro, poi, potrebbe riservare nuove sorprese ai movimenti progressisti. I sondaggisti brasiliani, ad esempio, ritengono che l’ex presidente Luiz Ignacio Lula da Silva sconfiggerà nettamente Jair Bolsonaro alle elezioni presidenziali che si svolgeranno nel 2022. I numeri sono impietosi e vedono Lula accreditato del 41% dei voti al primo turno e del 55% al secondo turno mentre Bolsonaro dovrebbe limitarsi, rispettivamente, ad un mero 23-32%. Le sfide derivanti da povertà, ineguaglianza e sviluppo economico sono più popolari che mai e potrebbero ritrovare nuovi impulsi grazie al Venezuela, ultimo baluardo di quella rivoluzione bolivariana voluta da Hugo Chavez, trasformata in un disastro dai suoi epigoni al potere ma ancora dotata di energia e di capacità di attrazione.