La prima domanda che tutti ci siamo posti è come sia stato possibile che un esercito di scalmanati e variopinti estremisti pro Trump abbia potuto mettere a ferro e fuoco il cuore di Washington facendo tremare gli Stati Uniti. Capitol Hill dovrebbe essere uno dei luoghi più sorvegliati al mondo, con un controllo a tappeto di ogni movimento, servizio d’ordine ferreo e protocolli mirati per qualsiasi evenienza. A maggior ragione se si tratta di un Paese che ha subito i colpi del terrorismo.
Eppure ieri qualcosa è andato storto. E le ipotesi iniziano a circolare nella stampa americana, che adesso si interroga su come sia potuto accadere che una manifestazione in favore di un presidente si sia trasformata in una macchia indelebile sull’ordine degli Stati Uniti.
Il primo dubbio riguarda i numeri. I manifestanti pro Trump erano tanti, certo, ma non era un’orda barbarica impossibile da fermare. Gli uomini del servizio d’ordine presenti a Capitol Hill sono apparsi da subito però troppo pochi anche per il numero di sostenitori che hanno marciato verso il Campidoglio. E questo fa riflettere soprattutto perché è da settimane che ci si aspettava qualcosa a Washington. E tutti sapevano, specialmente controllando i social network, che nella capitale degli Stati Uniti sarebbe accaduto qualcosa durante il rituale della verifica del voto presidenziale. Il più contestato della storia Usa.
Insomma, la minaccia c’era e tutti ne erano consapevoli. Come riporta Usa Today, John Magaw, ex direttore dei servizi segreti, ha detto che nella sua “esperienza di 50 anni nelle forze dell’ordine, questo è senza precedenti”, “il coordinamento della sicurezza è virtualmente andato in pezzi. Stiamo osservando il deterioramento della legge e dell’ordine negli Stati Uniti. Diventa solo caos”. Stessa amara constatazione di Ed Davis, ex commissario del dipartimento di polizia di Boston, che però ha posto l’accento su un altro tema: “Deve esserci la volontà politica di mettere in campo le risorse necessarie per fermare ciò che avrebbe dovuto essere visto… Questo è il risultato di una mancanza di volontà politica di controllare un tentativo di insurrezione”.
La guerra di responsabilità è quindi già partita, ma è presto per dare giudizi. Innanzitutto perché non è ancora chiaro chi avesse il compito di gestire e coordinare tutto l’apparato di sicurezza coinvolto nelle violenze del Campidoglio. Nel mirino è entrata subito la Capitol Police, che avrebbe dovuto controllare la situazione. Ma rischia di essere un gioco pericoloso o, peggio, uno scaricabarile. Ed è possibile che vi sia un rimpallo di responsabilità tra Dipartimento di Giustizia e Dipartimento della Homeland Security. Su Axios sia l’Fbi che l’Homeland Security hanno fatto capire di essersi schierati per sostenere la Capitol Police: segno che nessuno vuole prendersi la responsabilità di quanto accaduto, scaricando tutto sul servizio d’ordine preposto.
I buchi nella sicurezza sembrano evidenti. Le indagini sono ancora in corso ma alcune immagini parlano chiaro. Sui social network sono apparsi foto e video di una polizia ben poco intenzionata a fermare i rivoltosi, quasi che l’ordine ricevuto fosse quello della linea morbida. C’è chi addirittura accusa degli uomini del servizio d’ordine di aver aiutato la folla inferocita a entrare in Campidoglio rimuovendo le barriere che ne ostacolavano l’ingresso. Ma sono immagini che nessuno è in grado di verificare. Dimostrano però l’alone di sospetto su quanto accaduto a Washington.
Altro problema riguarda la Guarda nazionale. Il generale Mark Milley ha detto che una volta appurati gli scontri in Campidoglio, l’intero corpo di Washington DC era stato attivato per sedare pacificamente la rivolta. Ma il sindaco della capitale, tre giorni prima degli scontri, aveva chiesto che fossero schierati trecento uomini della guardia, che però non sono stati mobilitati. Su Twitter l’amministrazione del Distric of Columbia ha segnalato il problema proprio ieri sera.
Alcuni sospettano che il Pentagono si sia tirato indietro: non voleva essere coinvolto in quello che appariva come una pericolosa trappola nell’immagine dell’esercito e soprattutto non voler rimanere ingabbiato nello scontro politico in atto.
Il problema è che poi la mobilitazione è avvenuta dagli Stati confinanti. Nancy Pelosi, il cui ufficio era stato appena invaso dai manifestanti, ha chiesto aiuto ai governatori di Maryland e Virginia per inviare i loro uomini, e solo in quel momento, quando sono stati mobilitate le unità degli altri Stati, è intervenuto il corpo della capitale. Secondo fonti accreditate sarebbero state circa mille unità.
Ma anche in questo caso, i dubbi sono molti: la Difesa ha confermato che sarebbe stato Mike Pence e non Trump a dare l’ordine di mobilitare gli uomini. Stessa ipotesi che hanno ribadito fonti accreditate ai media Usa. Un modo per far capire che i repubblicani hanno provato, con il vice presidente, a fermare l’assalto? Possibile. E adesso in molti puntano il dito sulla Casa Bianca, colpevole, a detta degli opinionisti anti Trump, di aver reso possibile l’invasione di Capitol Hill.