L’invasione dell’Ucraina è iniziata ufficialmente il 24 febbraio 2022 con un discorso del presidente russo Vladimir Putin. Da quel momento, la storia dell’Ucraina, della Russia e del mondo è cambiata forse definitivamente. Ma è cambiata inevitabilmente anche la vita all’interno del Cremlino, che, dopo l’inizio di quella che è stata chiamata “operazione militare speciale” (e non guerra), ha inevitabilmente modificato il modo di gestire il potere di Putin e la rete di personalità influenti e burocrati intorno alla figura del presidente.
La guerra è infatti diventata uno spartiacque per Mosca e per la stagione di potere del leader russo, e questo ha fatto sì che all’interno dello Stato sono state la conduzione del conflitto e la fedeltà o meno alla linea del presidente a fare la differenza anche nell’autorità del singolo individuo del “cerchio magico“ moscovita.
I primi segnali
Un primo clamoroso assaggio di questo nuovo corso del potere russo lo si è visto proprio nelle primissime fasi della guerra, anche poco prima che essa deflagrasse con l’invio delle truppe russe in territorio ucraino. L’episodio è quello del rimprovero pubblico da parte di Putin nei confronti di Sergei Naryshkin, capo dello Svr, l’intelligence esterna russa.
La scena, per certi versi drammatica, vedeva il vertice dei servizi esterni di Mosca balbettare di fronte all’incalzante voce del presidente che quasi lo derideva per parlare della futura annessione delle regioni occupate (cosa poi avvenuta) e sull’ancora possibile negoziato con l’Occidente.
Per molti osservatori, quell’immagine sarebbe stata la condanna all’oblio di Naryshkin, uno dei “fantasmi di Leningrado”, tra gli uomini più vicini a Putin. Non è nemmeno da sottovalutare il fatto che Putin, attraverso quella sconfessione coreografica, abbia in realtà salvato il suo vero delfino nell’intelligence per un eventuale ruolo da successore. In ogni caso fu il simbolo di un cambiamento in corso in tutti i palazzi del potere in Russia.
Il ruolo di Lavrov
In questo sommovimento interno alla Federazione va poi anche osservato il ruolo del ministro degli Esteri, Sergej Lavrov. Fino a poche settimane prima della guerra, il capo della diplomazia russa era considerato non soltanto la parte più razionale e diplomatica della leadership moscovita, ma per certi versi anche la voce più lucida per un dialogo con l’Occidente. La guerra ha enormemente scalfito l’operato di Lavrov, che non è apparso solo in balia delle scelte di Putin, ma anche provocatorio nelle sue affermazioni.
Molte delle sue mosse sono apparse inutili o del tutto scenografiche. Alcune affermazioni si sono rivelate invece del tutto contrarie a quello che sarebbe avvenuto successivamente. Infine, è stato costretto anche a modificare il suo tradizionale distacco per piegarsi a un meccanismo di accuse violente e propaganda.
Lavrov è rimasto alla guida degli Esteri, come tutti i ministri più influenti sono rimasti al loro posto, ma senza particolare entusiasmo. Il conflitto ha del resto condannato la sua figura al pari di quella del suo lavoro diplomatico, relegandolo al rango di esecutore diplomatico di una strategia che probabilmente non ha mai considerato utile.
Il “contrappeso” a Putin
La guerra ha poi modificato anche la percezione del ruolo dei due principali vertici della Difesa russa: il ministro Sergej Shoigu e il capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov. I due uomini – nella lettura di molti media occidentali – sono spesso stati visti come una sorta di contrappeso alle scelte di Putin. L’immagine dei due uomini che osservavano con preoccupazione il presidente russo durante un incontro all’inizio della “operazione militare speciale” venne letta da molti come una sorta di distacco pessimistico tra i militari e il Cremlino.
Poi, a marzo, qualcuno iniziò anche a parlare di misteriosa scomparsa e di ipotesi di rimozioni: non apparendo più in immagini pubbliche, sia Shoigu che Gerasimov erano dati come spacciati, lontani dai radar perché avevano fallito nei piani bellici. Qualcuno addirittura parlava di un grave problema di salute o di possibili morti di entrambi.
Tra un susseguirsi di cambi nella gerarchia militare e soprattutto tra chi comandava le operazioni in Ucraina, la guerra è andata parallela al coinvolgimento diretto dei due vertici militari nel conflitto e nella propaganda putiniana. La loro scomparsa è stata spesso assimilata alle sconfitte, mentre ora, per esempio, con una Russia che appare in grado di infliggere di nuovo colpi all’Ucraina, Shoigu appare sempre più spesso, mentre Gerasimov, da gennaio, è addirittura al comando della “operazione militare speciale”.
Questo potrebbe essere visto come un nuovo tentativo di rafforzare le forze armate in una fase in cui apparivano enormemente indebolite le figure apicali, quasi a salvarne la faccia dopo mesi di rischio di defenestrazione.
Kadyrov e Prigozhin, mine vaganti
Un cambiamento che per il Cremlino serve soprattutto in un’ottica politica: valorizzare il ruolo dei capi delle forze armate russe aiuta infatti a frenare le ambizioni di due uomini che durante la guerra sono stati ritenuti fondamentali, e cioè il ceceno Ramzan Kadyrov e il capo della Wagner Yevgeny Prigozhin. I due capi militari, esterni alle forze regolari di Mosca, rappresentano da un lato i vertici di feroci milizie che hanno fornito a Putin le vittorie di cui aveva bisogno per confermare all’opinione pubblica il momentaneo successo dell’invasione.

Dall’altro lato, va anche considerato che un ceceno troppo esuberante e violento e un privato che gestisce una legione di mercenari più preparata dei reparti dell’esercito al fronte hanno influito in modo negativo sia sulla percezione delle forze armate della Federazione sia sulla capacità della Russia, e quindi di Putin, nel gestire un conflitto.
I due uomini, leader politici e in un certo senso anche carismatici, sono stati addirittura inseriti nella lista dei potenziali successori di Putin in caso di golpe dei cosiddetti “falchi”. E il rischio di uno strisciante golpe di boiardi o di rinascita dei secessionismi non ha certamente rafforzato la loro posizione nel cerchio magico di Putin dopo che invece per anni (e nel primo anno di guerra) sono apparsi tra i fedelissimi dello “zar”.
Intorno alla figura di Putin, si riconoscono poi una serie di personalità sempre meno fondamentali nelle logiche pubbliche del potere. La narrazione dei fedelissimi si è andata perdendo nel corso del conflitto lasciando in disparte personaggi che invece avevano un peso politico – più o meno pubblico – anche rilevante.
I falchi e l’intelligence dello zar
Abbiamo parlato del caso di Naryshkin, primo grande campanello d’allarme per la cerchia di potere del presidente. Ma all’interno di quel circuito misto di intelligence, oligarchia e amici di Putin, un altro ad avere assistito ad ascesa e declino all’interno del Cremlino è Nikolaj Patrushev, segretario del Consiglio di sicurezza, un uomo considerato tra i più vicini al leader e che addirittura dopo alcuni mesi dall’inizio dell’invasione era visto come il successore designato dallo stesso Putin alla guida della Russia. Il “falco” è apparso con alcune interviste, ma lavora di nuovo nell’ombra, forse anche lui punito per non avere dato le risposte attese dal capo di Stato.
Una sorte simile sembra essere toccata anche al direttore del Servizio federale di sicurezza (Fsb) Aleksandr Bortnikov. Da tempo di lui si sono perse le tracce. Continua il suo lavoro come vertice del potentissimo Fsb, ma mentre prima anche la stampa occidentale ne parlava come consigliere fidatissimo e potenziale leader in caso di regime change soft tra le mura del Cremlino, ora è quasi scomparso. E di recente, la Stampa ha anche parlato dell’ipotesi della sua sostituzione con Sergei Korolev, uno dei vice di Bortnikov. Secondo il quotidiano torinese, il fatto che Korolev sia in quarantena preventiva a Mosca potrebbe confermare un incontro con Putin nei prossimi giorni: cosa che alimenta l’ipotesi di un cambio della guardia nelle gerarchie dello Fsb. Questione che rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione per un sistema, quello dei servizi, dove tutto è ancora fortemente ancorato alla figura di Putin e ai suoi fedelissimi del fu Kgb sovietico.
In tutto questo, una serie di altre personalità politiche hanno modificato la loro posizione all’interno della guerra. L’ex presidente Dimitri Medvedev, per esempio, ha assunto il ruolo di megafono delle forze più oltranziste e nazionaliste della Russia dopo essere stato ritenuto, nella sua breve stagione presidenziale, il delfino moderato di Putin. Anche lui, al pari di altri, ha visto nella guerra un’occasione di rivalsa pubblica, diventando a tutti gli effetti il leader carismatico dei falchi e di chi vuole colpire l’Ucraina e la Nato.

Con i suoi canali social, l’ex presidente alimenta una narrazione bellicista che serve soprattutto a rafforzarlo nei circoli di potere intransigenti e nell’opinione pubblica nazionalista. Ma anche in questo caso, la sua figura appare ben lontana da quello di consigliere fidato di Putin, apparendo semmai come un uomo interessato semplicemente a rafforzarsi in vista di un possibile mantenimento della leadership di Putin (o anche solo delle elezioni).
L’imbarazzo dei tecnici e la solitudine di Putin
Accanto a queste figure più “pubbliche”, esiste poi un insieme di personalità tecniche che appaiono sempre meno influenti nel cerchio magico di Putin. Da tempo il primo ministro Mikhail Mishustin ha aumentato la retorica antioccidentale, ma appare fondamentalmente lontano dal sistema dei fedelissimi, legandosi in realtà al blocco dei pragmatici. I ministri più tecnici del governo non sembrano allineati alle decisioni di Putin. Mentre la direttrice della banca centrale, Elvira Nabiullina, ha già fatto intendere di avere perplessità sul futuro della Russia e di volere trasparenza verso imprenditori, cittadini e mercati finanziari rispetto alle conseguenze delle sanzioni, della guerra e dell’isolamento internazionale.
In tutto questo meccanismo di allontanamenti e di prove di convivenza con questo nuovo sistema di potere di guerra, appare fondamentale quanto scritto di recente su Limes da Orietta Moscatelli, e cioè che “nella notte del Natale ortodosso al Cremlino è stato celebrato il funerale del ‘Putin collettivo'”. La scelta comunicativa del presidente di apparire da solo nella chiesa dell’Annunciazione con pochi monaci (e neanche con il patriarca Kirill) sembra confermare l’immagine di un leader volutamente solo, unico e senza altri corresponsabili o complici.
Il Consiglio di sicurezza della Federazione russa, una sorta di collegio dei più importanti uomini del potere russo, è ormai distante dal capo del Cremlino. E, come ricorda Limes, il fatto che la maggioranza dei russi sia ancora saldamente fiduciosa in Putin, non abbia negato sostegno alla guerra in Ucraina e appaia soprattutto desiderosa di non perdere, in qualche modo alimenta l’idea che l’uomo solo al comando sia ancora la scelta politica migliore per il capo dello Stato.
La guerra ha stravolto il sistema di potere. E in questo senso sarà essa, come appare ormai chiaro, a decidere le sorti del putinismo. E con esso di un cerchio magico che ha già cambiato pelle e in cui tutti i personaggi più influenti hanno paura di essere considerati troppo vicini o troppo lontani dal presidente, nell’incertezza del destino di Mosca.