Il voto del 3 novembre ha mostrato grossi paradossi nella politica americana. I risultati delle elezioni, dalla Casa Bianca fino ai Congressi statali, sono andati in due direzioni diverse. Joe Biden, al netto di sorprese sul piano legale che sembrano non arrivare, sarà il 46esimo presidente. L’ex vice di Barack Obama ha conquistato il voto popolare con un discreto margine, ma la vittoria dem si ferma alla soglia del 1600 Pennsylvania Avenue. A Capitol Hill l’aria è molto diversa. Il partito democratico ha conquistato di nuovo la maggioranza nella Camera dei rappresentanti, ma allo stesso tempo non è riuscito a riperdere il Senato, al netto di sorprese nei ballottaggi in Georgia.

Il paradosso di questo voto è quindi questo: milioni di americani hanno votato per Joe Biden, per cambiare l’inquilino della Casa Bianca, ma allo stesso tempo hanno votato per il partito repubblicano, per eleggere governatori e Congressi locali repubblicani. E questo avrà delle conseguenze notevoli in vista del 2022, quando si terranno le elezioni di metà mandato. Conseguenze molto pericolose per i democratici. Sì, perché il partito dell’asinello rischia un grosso flop alle urne, almeno per cinque motivi.

1 .Una strategia elettorale da rifare

Il risicato successo alla Camera, sul quale torneremo nel dettaglio dopo, è stato vissuto in casa democratica come una pesante sconfitta. Secondo diversi analisti e giornalisti di Politico il partito dell’asinello ha mancato una serie di obiettivi al di là delle elezioni federali. I dem speravano di replicare l’onda rossa del 2010 quando il partito repubblicano fu in grado di vincere diverse amministrazioni statali. Un successo che permise poi la ridefinizione dei distretti elettorali e le vittorie elettorali successive. Il mancato ribaltamento del 2020 apre quindi le porte a un decennio turbolento per i democratici.

Questa mancata ondata può essere letta in due modi, uno macro e uno micro. Partiamo con il primo e per farlo prendiamo due Stati emblematici: Florida e Texas. Il Sunshine State orami sembra sempre meno uno swing state e sempre più uno Stato tendenzialmente repubblicano. Il Texas, invece, da anni sembra pronto per diventare democratico. E in effetti le ultime tornate elettorali hanno mostrato un divario sempre già ridotto. Il punto è che nonostante questa riduzione, il Lone Star State vota ancora repubblicano.

È probabile in futuro lo stato cambi colore, ma molti si sono chiesti: non è meglio lasciare che il cambiamento avvenga sotto il peso delle migrazioni interne, dell’aumento delle minoranze o semplicemente della demografica, anziché spendere miliardi di dollari per forzare la mano? Il comitato elettorale di Biden ha speso oltre sei milioni di dollari in spot in Texas, senza però vincere. Briciole se confrontati coi 50 milioni spesi dal Comitato per la campagna legislativa democratica per riconquistare gli organi legislativi locali. Quei soldi forse potevano essere dirottati in Stati più in bilico, per rinforzare candidati dem uscenti in distretti moderati o per difendere le posizioni.

Se invece osserviamo l’elezione da un punto di vista più “micro” ci accorgiamo di errori e sviste di molti comitati locali o singoli candidati. Tutti aspetti denunciati della deputata progressista Alexandria Ocasio-Cortez che ha accusato l’organizzazione del partito di non avere le competenze necessarie per condurre una campagna elettorale efficace. Troppi candidati non hanno goduto del giusto appoggio da parte partito. Per Ocasio-Cortez la macchina non è stata capace di costruire una forte presenza online, investire nel reclutamento dei volontari per il porta aperta e nel lavoro di persuasione degli elettori.

2. L’assedio dei socialisti

La presa di posizione della Ocasio-Cortez è la dimostrazione anche di un’altra debolezza dem: il violento scontro interno tra moderati e progressisti. Se è vero che gli esisti del voto hanno dimostrato come la compagine “socialista” sia uscita sconfitta, non si può dire altrettanto per il loro peso nel partito.

Subito dopo l’esito non incoraggiante al Congresso i deputati hanno avviato una vasta analisi della sconfitta, che ben presto ha preso le sembianze di uno psicodramma. Da un lato i moderati hanno accusato i progressisti per la retorica “socialista” e per le proposte come “Green new deal”, “Medicare-for-all” e “Defund the police“ colpevoli di essere costate voti soprattutto nei distretti più in bilico. Dall’altro i progressisti hanno ribattuto che il problema è stato di programma e di campagna elettorale, non di contenuti.

I moderati vorrebbero bandire la parola “socialista” ma il processo potrebbe essere molto difficile da invertire. La famosa Squad capitanata dalla deputata Ocasio-Cortez si è arricchita e altri radicali sono entrati nel Congresso. Ma non solo. Gli ultimi mesi hanno certificato che le forze progressiste hanno cinto d’assedio il partito, soprattutto durante le primarie.

Negli ultimi mesi gruppi di pressione di area progressista si sono mossi molto attivamente per influenzare la scelta dei candidati. Si tratta di formazioni come Justice Democrats, Sunrise Movement o Indivisible. Fonti anonime del partito hanno raccontato che almeno 130 democratici hanno affrontato primarie feroci contro candidati radicali supportati da questi gruppi. Molti di questi gruppi sono nati subito dopo l’elezioni di Donald Trump. È il caso, ad esempio di Justice Democrats nato nel 2017, che ha giuocato un ruolo fondamentale nell’elezione al Congresso di Ocasio-Cortez nel 2018.

Una di queste fonti ha spiegato che presto ci sarà una enorme resa dei conti: “A molti di Justice Democratici non frega niente del Partito Democratico, per loro conta solo la purezza ideologica e l’ortodossia e questo sta danneggiando le nostre opportunità”. Come successo coi latinos ad esempio.

3. Gli errori con i latinos

Una delle sorprese delle elezioni del 3 novembre è sicuramente quella del voto ispanico. Exit poll e flussi elettorali hanno mostrato che molte delle convinzioni intorno al voto delle minoranze erano sbagliate.

Se è vero che la massa resta legata al partito democratico, è altrettanto vero che i repubblicani stanno iniziando a recuperare terreno. Il voto ha anche mostrato come il termine “elettori ispanici” sia sbagliato. E infatti i rappresentanti delle varie comunità hanno iniziato a dire che sarebbe meglio spacchettare l’etichetta “ispanica”.

Il voto in Florida, ad esempio, ha messo in luce come gli ispanici di origine cubana confermino la loro allergia per messaggi radicali dal sapore “socialista”. Allo stesso tempo Nevada e Arizona hanno dimostrato che serve il contributo dei latinos per vincere.

Domingo Garcia, presidente della League of United Latin American Citizens (LULAC), associazione per i diritti civili dei latinos, ha bacchettato i dem, spiegato che il partito per troppo tempo ha dato per scontato il sostegno degli ispanici: “Se vogliono il nostro sostegno, devono capire per prima cosa che i latinos non sono un monolite”. Gli statunitensi di origine messicana o portoricana tendono ad essere progressisti e democratici, mentre quelli di origine cubana sono più conservatori e guardano ai repubblicani. E qui iniziano i problemi.

Sì, perché se da un lato devi lanciare messaggi moderati per cercare di arginare il travaso verso il Gop in alcuni Stati, dall’altro non puoi fare a meno di avere un programma più radicale. Gli ispanici di origine messicana sono infatti attratti dal populismo economico proposto dalla sinistra di Bernie Sanders, che non a caso a febbraio ha vinto le primarie in Nevada davanti a Biden grazie al voto degli ispanici. Lo stesso Garcia ha continuato spiegando che l’eventuale ammorbidimento dei dem sul fronte delle proposte progressiste potrebbe costare voti nelle prossime elezioni.

Il punto quindi sarà decidere quale possa essere la strategia da adottare, dato che non sarà facile far convivere queste due inclinazioni. Quello che è certo è che bisognerà presidiare il territorio. Cosa che non sempre è avvenuta. Il governatore del Texas Greg Abbott ha spiegato che i comitati dem hanno fatto poco e male nelle zone al confine con il Messico. Mentre Bertica Cabrera Morris, stratega repubblicana appartenente ai Latinos for Trump, ha raccontato di come i comitati repubblicani abbiano battuto lo Stato anche per dare voce a quelle comunità.

4. La forza del partito repubblicano

L’elezione ha anche sovvertito i pronostici di un partito repubblicano monolitico e vincente solo grazie a Trump. Partiamo dai numeri. Al momento i dem hanno conquistato 222 seggi alla camera, quattro in più rispetto alla soglia di maggioranza. I seggi che sono riusciti a strappare ai repubblicani sono stati a malapena tre, uno in Georgia e due nello Stato di New York. Ma al Gop i flip riusciti sono stati addirittura 11 e il bottino potrebbe aumentare.

Se i ballottaggi in Georgia andranno ai repubblicani, Biden diventerebbe il primo presidente dai tempi di George H. W. Bush a entrare in carica senza avere il controllo in entrambi i rami del Parlamento. E sempre secondo i manuali di storia Biden sarebbe il primo democratico dai tempi di Grover Cleveland (1885) a insediarsi senza che il suo partito abbia la maggioranza in entrambi i rami del Congresso.

L’ex senatore del Delaware ha vinto la presidenza con il seguito democratico alla Camera più debole dai tempi di John F. Kennedy. Nel 2021 Biden si appresterà a lavorare con 4,7% deputati in meno, mentre nel 1961 JFK iniziò con un -7,4%. Tanto per avere un parametro di riferimento Donald Trump nel 2016 inizio con un -2,4%, mentre Barack Obama con un +10,3%. Nancy Pelosi, fresca di conferma come speaker della Camera, dovrà lavorare con la maggioranza più stretta da 18 anni a questa parte.

L’altro dato interessante è che questi flip sono stati ottenuti da donne e appartenenti alle minoranze. In California, ad esempio due candidate di origine coreana hanno battuto gli incumbet dem nella contea di Orange County, mentre in Oklahoma Stephanie Bice ha battuto la candidata uscente dem diventando la prima deputata di origine iraniana a entrare nel Congresso. Numeri che mostrano un partito in salute e soprattutto radicato nel territorio.

5. Il peso del presidente democratico

Strategie sbagliate, lotte intestine e vigore dell’avversario sono problemi che tolgono il sonno agli strateghi democratici. Ma tutti questi elementi affondano le radici in una crisi e mutazione di lungo. Negli ultimi anni il partito democratico ha prestato sempre meno attenzione a come coinvolgere gli elettori riducendo gli investimenti sulla macchina organizzativa. Così la struttura si è svuotata, creando un grosso blocco legato a Washington e un’intelaiatura nei vari Stati sempre più debole e priva di una presenza radicata e tangibile sia per i volontari che per gli elettori.

Tutto questo ha aperto le porte a un vasto mondo di trafficanti di influenze esterne ai partiti. Come i Pac, i comitati di raccolta fondi per i partiti, gli spin doctor o altri gruppi di pressione. Tutti legati ai partiti ma nessuno realmente parte di essi. In questo modo il contatto con la base è venuto meno.

Anche il partito repubblicano non è stato immune a questo ma per i dem il fenomeno è stato più accentuato. Complicato anche dal rapporto che intercorre tra un presidente democratico e il suo partito, che paradossalmente ha sofferto di meno i presidenti democratici. Mentre i presidenti repubblicani solitamente hanno lasciato i propri partiti con una buona organizzazione interna e territoriale.

Questo è stato particolarmente significativo negli ultimi anni. Barack Obama non è stato capace di incanalare il grande attivismo che l’ha portato alla Casa Bianca nel partito anche perché ha deviato molti dei suoi talenti verso le fondazioni da lui create. Non a caso lo stesso ex presidente ha ammesso il suo errore: “Non abbiamo iniziato quello che penso debba accadere nel lungo periodo cioè ricostruire il Partito Democratico a livello di base”.

L’elezione di Donald Trump aveva in parte riattivato l’attivismo democratico e gli effetti si erano visti nelle elezioni di metà mandato del 2018. Ma questo non è bastato a confermare l’exploit nel 2020. Ora la strada verso il prossimo voto appare in salita con profondi problemi da risolvere. Per farlo servirebbe un partito compatto, ma la faida tra moderati e progressisti rischia di assestare il colpo decisivo.