Si chiama Aleksey Burkov, ha 29 anni, e fino a poche settimane fa era un anonimo “ospite” del carcere israeliano di Hadarim, dove per quattro lunghi anni non ha mai riscosso l’attenzione di nessuno. Nemmeno quella dei suoi carcerieri, data la tranquillità della sua condotta, e visto il suo fare schivo e silenzioso. Adesso è il prigioniero più famoso d’Israele. Il motivo è semplice: Burkov non è un criminale comune, ma un hacker di altissimo livello sul quale vogliono mettere le mani sia i servizi segreti di Mosca che quelli di Washington. Per quanto Israele avesse proteso – naturalmente – per estradarlo verso lo storico alleato americano, Mosca sembra aver trovato una contropartita per convincere in governo di Tel-Aviv a farsi consegnare questo “prezioso” ricercato: una giovane israeliana che rischia di scontare una pena di oltre sette anni per contrabbando di hashish.

Il nome della ragazza è Naama Issachar: una venticinquenne arrestata con poco meno di dieci grammi di droga mentre era di ritorno da un corso di yoga, in India, ed era transito nell’aeroporto di Mosca. Il suo destino adesso è legato doppio filo a quello di un uomo che non l’ha mai incontrata; e al misterioso passato di questo giovane hacker russo che il Cremlino avrebbe iniziato a considerare come “un bene di suprema importanza” – secondo l’affermazione di un alto funzionario israeliano coinvolto nel caso e citato da Haaretz.

Ma facciamo un passo indietro per capire quello che ora ci appare a tutti gli effetti come un intrigo internazionale. Tutto ha inizio nel 2009, quando l’Fbi, e poi l’Nsa, avviano un’ampia indagine sul furto di dati legati alle carte di credito di 150.000 americani. Dati che hanno consentito di commettere cyber-crimini per circa 20 milioni di dollari. Nel 2013 gli agenti federali e gli agenti segreti americani si convincono che il colpevole di questa enorme azione di pirateria informatica sia un operatore del sito web Cardplanet.cc, identificato come un giovane residente a San Pietroburgo. Il giovane hacker, noto nel panorama del web “sommerso” con il nome di Zero Day, sarebbe stato addirittura sorpreso a vantarsi dei crimini commessi, condividendo su portali consultati anche da hacker israeliani “codici open source che utilizzava per penetrare nei computer americani e rubare i dati degli account”. Nel 2015 gli Stati Uniti, sicuri di aver trovato il colpevole, emettono un mandato di arresto internazionale nei confronti di Aleksey Burkov, accusato da parte di un tribunale della Virginia di frode, furto di identità, pirateria informatica e riciclaggio di denaro. Ma la realtà è che secondo i servizi segreti americani, e anche secondo fonti israeliane, il giovane hacker non sarebbe solo un truffatore bravo con il computer. Ma qualcosa di più. Qualcosa che potrebbe spiegare perché Mosca ha iniziato a ritenerlo tutto d’un tratto così “prezioso”.

Nel 2015 Aleksey Burkov, all’oscuro della sua condizione di “ricercato speciale” a livello internazionale, viene tracciato dai servizi segreti americani e individuato tramite il caricamento di una foto online di Thailandia. Seguendo i suoi spostamenti aerei dall’Asia al Medio Oriente, i servizi Usa attendono la sua uscita dell’Egitto per farlo arrestare nell’aeroporto israeliano Ben Gurion. Da allora Burkov è rimasto detenuto in Israele con l’accusa di pirateria informatica in base al mandato di cattura internazionale. Ad interrogarlo al momento dell’arresto, oltre le autorità locali, anche due agenti dei servizi segreti americani che avrebbero accertato il suo coinvolgimento del crimine cibernetico contestatogli, e avrebbero scoperto come Burkov vendesse o cedesse i dati rubati su una piattaforma web nota per essere banco di scambio con altri criminali cibernetici. Da lì Washington avviò con gli israeliani la procedura di estradizione negli Stati Uniti.

Non appena il Cremlino è venuto a sapere che l’hacker era in mani israeliane, e che sarebbe stato dato agli americani, ha avanzato la richiesta di estradizione del prigioniero di nazionalità russa, motivandola con gli stessi crimini contestati dagli americani ma senza presentare prove sostanziali di una vera e propria indagine su questo “prezioso” criminale. Quando tutto sembrava procedere, con Tel-Aviv che espletava le pratiche per l’estradizione a favore degli Usa, in Russia veniva però fermata e in un secondo momento incarcerata la giovane israeliana Naama Issachar – alla quale viene immediatamente inflitta una pena spropositata rispetto al reale crimine commesso. Il motivo appare quasi evidente: poterne fare – adesso anche secondo la famiglia della ragazza – una merce di scambio per ottenere Burkov; e con buone probabilità custodirne i segreti.

È proprio nel momento successivo all’arresto e alla decisione della pena che Naama avrebbe dovuto scontare in un carcere a 50 chilometri da Mosca che una serie di “appelli online”, e richieste pervenute da profili fake sui social, iniziando ha paventare la possibilità che Mosca avrebbe rilasciato la giovane israeliana in cambio di un rilascio “spontaneo” di Burkov. I messaggi, sempre più frequenti e aggressivi, finirono per convincere la famiglia Issachar (di origini americane) e i legali che si occupavano del caso, che si potesse trattare di una vera e propria cospirazione. La vicenda ci riporta infatti alla memoria il caso dello studente americano Frederic Pryor: arrestato dalla Germania dell’Est e reso “ostaggio” nello partita per lo scambio della famosa spia russa Rudolf Abel. La maggior parte dei messaggi, che iniziano ad arrivare con frequenza, sono firmati da  Konstantin Beckenstein, che asserisce di essere un amico di Burkov. “Naama non sarà rilasciato fino a quando non lo sarà Aleksey”, affermava il mittente dei messaggi con ripetitività e un’aggressività tale da essere bloccato su social e su telefoni e dispositivi.

Ma chi è veramente Becknstein ?

Secondo gli investigatori israeliani, Kostain Beckenstein, nato del 1973 in Ucraina, e già colpevole di reati analoghi a quelli contestati a Burkov – sebbene di minore entità – ed è stato detenuto nella prigione di Hadarim: la stessa dove è detenuto Burkov e dove potrebbero essere entrati in contatto del 2017. Benché Beckenstein abbia rifiutato di confermare un contatto diretto con Burkov – contraddicendosi – sembra di essersi offerto volontario per aiutare l’hacker e contattare la famiglia Issachar con quelle che vengono citata come “le migliori intenzioni”. Sopratutto dopo aver dichiarato di essersi consultato con il prezioso prigioniero russo e “aver capito come esistesse una connessione tra i due casi”.

Secondo le ultime informazioni accessibili dalla stampa russa e da quella israeliana – nonché dalle inchieste aperte da New York Times sulla vicenda – il caso “esploso” intorno al destino di questi due prigionieri dovrà attendere necessariamente la decisione degli israeliani – già molto occupati con la loro crisi di governo. Il premier Benjamin Netanyahu, promotore di una rafforzamento dei rapporti con il presidente russo Vladimir Putin – al quale ha già chiesto formalmente la” grazia” per la Isaacher – dovrà dunque cercare un accordo che accontenti sia il Cremlino che la Casa Bianca. Per non essere costretto a scegliere quale potenza globale dover accontentare, scambiando il destino di una pirata informatico sospettato di essere legato con i servizi segreti russi, con il futuro di una giovane ragazza israeliana colpevole di aver portato con se pochi grammi di droga che ora pesano come macigni in questo misterioso e inquietante intrigo internazionale.

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