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Sono anni che la Regione autonoma uigura dello Xinjiang, meglio nota come Xinjiang, si trova al centro di una diatriba internazionale. Negli ultimi mesi, in concomitanza con l’aggravarsi delle tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina, le pressioni nei confronti di Pechino sono aumentate a dismisura. Voci, indiscrezioni, notizie di seconda o terza mano, report più o meno affidabili – talvolta realizzati da enti o istituzioni americane, comunque anti cinesi a priori – hanno gettato benzina sul fuoco scatenando una sorta di pericolosa crociata contro la Cina.

Il motivo? La presunta violazione dei diritti umani perpetuata dalle autorità cinesi nei confronti degli uiguri, la minoranza turcofona-musulmana che abita la regione. Abbiamo utilizzato il termine “presunta violazione”. E questo perché, nonostante i molteplici allarmi provenienti dall’Occidente, appare evidente, in virtù del clima da nuova Guerra Fredda venutosi a creare lungo l’asse Washington-Pechino, come un tema così sensibile sia stato più e più volte politicizzato dalla controparte americana per il solo fine di danneggiare l’immagine di una nazione considerata rivale.

In questa sede, anziché puntare il dito a priori, o peggio azzardare ipotesi screditate perfino da una buona parte di accademici, sinologi e perfino della stampa internazionale, ci limiteremo ad analizzare un rapporto che presenta la questione Xinjiang da una prospettiva diversa dalle ricerche mainstream. In questo modo il lettore sarà libero di attingere a più fonti, così da approfondire un tema complesso con strumenti altrettanto complessi e non superficiali.

La complessità dello Xinjiang

Molti politici, per screditare la politica cinese nello Xinjiang, hanno più volte parlato di “genocidio” in riferimento alla situazione uigura. Il concetto di “genocidio” è stato tuttavia rigettato niente meno che dall’Economist. La prestigiosa rivista anglosassone, lo scorso febbraio, ha scritto un articolo intitolato Genocide is the wrong word for the horrors of Xinjiang (Genocidio è la parola sbagliata per gli orrori dello Xinjiang). Pur parlando di “persecuzione”, il settimanale non se l’è sentita di dare ragione a Mike Pompeo. Ma che cosa sta accadendo, davvero, nell’estremità occidentale della Cina?

C’è chi parla di una schedatura sistemica e sistematica degli uiguri, chi parla di milioni e milioni di cittadini imprigionati in campi di lavoro (o campi di concentramento), chi parla, insomma, di uno Xinjiang “prigione a cielo aperto”. La Cina ha sempre respinto simili accuse, sostenendo che gli unici sforzi governativi sono orientati in un’unica direzione: sradicare terrorismo, separatismo ed estremismo politico-religioso in nome del benessere del popolo. Quelli che sono stati definiti campi di lavoro forzato, inoltre, altro non sarebbero che strutture riabilitative all’interno delle quali recuperare fanatici islamisti o pericolosi estremisti. La vicenda, insomma, è molto più complessa di quanto non si possa immaginare.

Numeri, dati, statistiche

È molto interessante concentrarci su alcuni aspetti passati inosservati. L’elaborato dal titolo Rapporto Xinjiang. Capire la complessità, costruire la pace (consultabile al seguente link), realizzato da un gruppo di ricercatori indipendenti, e promosso dal Laboratorio BRICS di Eurispes, dall’Istituto Diplomatico Internazionale (IDI) e dal Centro Studi Eurasia-Mediterraneo (CeSEM) si pone un obiettivo ben preciso. Quale? Quello di “fornire alle Istituzioni un rapporto il più possibile oggettivo, indipendente ed affidabile, al fine di contribuire all’innalzamento della qualità del dibattito e, di conseguenza, delle relative decisioni politiche”.

Dando uno sguardo al documento, il lettore potrà, se non altro, ottenere dati stimolanti. Innanzitutto, con 47 gruppi etnici e varie comunità religiose attive, lo Xinjiang è “una realtà segnata da un grande pluralismo sociale e culturale“. Da questo punto di vista, la comunità uigura, citiamo il rapporto, “rappresenta attualmente il 51,1% della popolazione locale, in crescita rispetto al dato del 2010 (45,8%)”.

Tra terrorismo e separatismo

Altro aspetto non sempre affrontato a dovere riguarda la piaga del terrorismo (e del separatismo) che, nel corso degli anni, ha creato non pochi problemi sociali all’intera regione autonoma dello Xinjiang. Le origini ideologiche del separatismo uiguro sono duplici: panturchismo da una parte e islamismo dall’altro. I gruppi estremisti presenti nello Xinjiang hanno sostanzialmente sovrapposto le due radici. Non solo: all’indomani dell’11 settembre, il coinvolgimento degli Stati Uniti in Afghanistan ha creato una fase di instabilità che ha ridato nuova linfa ai gruppi integralisti operativi in Asia Centrale.

Costoro, a loro volta, hanno “risvegliato” e supportato le attività separatiste nello Xinjiang, addestrando all’estero (in particolare in Afghanistan) attivisti uiguri. Tra le formazioni più attive e violente presenti nella regione dobbiamo per forza citare il Movimento Islamico per il Turkestan Orientale (ETIM), tra l’altro classificato come organizzazione terroristica dalla Cina ma anche da Unione europea, Stati Uniti, Regno Unito, Russia. Attenzione però, perché il Dipartimento di Stato Usa, nel novembre 2020, ha rimosso il suddetto gruppo dalla sua blacklist in quanto “da oltre un decennio non sono comparse prove credibili del fatto che l’ETIM esista ancora”. Questa mossa ha “ha scatenato le ire della Cina per quello che Pechino considera, tutt’ora, un doppio standard di fronte al terrorismo internazionale”.

La risposta della Cina

Per sciogliere il nodo terrorismo+separatismo, la Cina è dovuta ricorrere alle maniere forti. La risposta di Pechino, seppur limitata a interventi di polizia finalizzati a mettere in sicurezza contesti specifici (quelli trasformati in basi dai gruppi terroristici), non si è fatta attendere. Tra gli interventi più massicci ricordiamo quello risalente al luglio del 2009. All’epoca la città di Urumqi fu scossa da una settimana di pesanti disordini, nonché da una guerriglia urbana, una sorta di “caccia condotta da centinaia di estremisti e terroristi ai danni dei cinesi di etnia han ma anche degli stessi uiguri e delle altre minoranze”. Il bilancio finale, si legge ancora nel Rapporto Xinjiang, fu di 140 morti e 828 feriti.

Altrettanto interessante è approfondire la questione uigura concentrando l’attenzione sul lato dei diritti umani. Gli Stati Uniti hanno più volte puntato il dito contro Pechino, accusandolo di aver organizzato “campi di concentramento per un milione e mezzo di persone”. Queste accuse, ambigue nei numeri, deriverebbero dalle analisi effettuate da un antropologo tedesco di nome Adrian Zenz, che tuttavia non avrebbe mai visitato lo Xinjiang sul campo. Come se non bastasse, hanno fatto notare alcuni esperti, i dati emersi dai censimenti ufficiali nello Xinjiang “smentiscono l’ipotesi che un numero così elevato di persone di etnia uigura, o comunque di fede musulmana, possa trovarsi rinchiuso nei campi”.

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