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A Barcellona riesplode la rabbia degli indipendentisti. E a un anno dal referendum, la Catalogna torna a infiammarsi, consapevole che le anime secessioniste della regione iberica non si arrenderanno tanto facilmente. Gli scontri avvenuti sabato per le strade del capoluogo catalano sono il simbolo che quel magma ancora ribolle. E che non è destinato ad arrestarsi nel prossimo futuro.

La miccia è esplosa per la manifestazione del sindacato di polizia Jusapol, che ha voluto ricordare il giorno della requisizione delle urne per il referendum. Tanto è bastato per far scattare la rabbia dei Comitati per la difesa della Repubblica. Erano più di 6mila i manifestanti che hanno raccolto l’appello dei Comitati per scendere in piazza.

Non tanti visti i numeri imponenti delle manifestazioni secessioniste: ma era una protesta nata per essere a rischio violenza, e quindi è chiaro che molti hanno desistito. I manifestanti si sono trovati davanti i Mossos d’Esquadra: la stessa polizia catalana che durante i giorni del referendum aveva sostenuto gli indipendentisti evitando di mettere in atto gli ordini del governo di Madrid.

Ma questa volta i Mossos non erano dalla parte dei secessionisti e hanno effettuato diverse cariche contro i manifestanti, che li hanno bersagliati di uova, vernice e fumogeni. Secondo le prime stime, ci sarebbero stati almeno 24 feriti e sei arresti. Un bilancio che fa capire il livello di violenza che si è raggiunto per una manifestazione tutto sommato piccola ma intensa.

La violenza di ieri è il sintomo che lotta dei secessionisti catalani non si fermerà. E anche se i gruppi di difesa della Repubblica sono piccoli e abbastanza isolati dal resto dei grandi movimenti secessionisti, in ogni caso rappresentano una minoranza violenta e che ha mostrato di essere pronta a riprendere con le proteste.

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Il referendum dell’anno scorso è stato una prova di forza che non aveva in realtà l’obiettivo concreto di ottenere l’autonomia da Madrid. Lo scopo era un altro: mostrare al mondo che esisteva una regione che voleva secedere e far apparire il governo di Spagna come un esecutivo autoritario che tarpava le ali dell’indipendenza con polizia e arresti.

Raggiunto questo scopo, gli indipendentisti catalani si sono fermati. Gli arresti dei leader secessionisti e la chiusura da parte degli altri Stati europei hanno reso impossibile proseguire la battaglia. Ma è servito anche per attendere le mosse di Madrid, e capire come orientare la propria battaglia non solo ideologica ma anche politica.

Ma la guerra è un altro discorso:è a lungo termine. E a Barcellona e dintorni sono convinti che quella del primo ottobre 2017 sia soltanto una tappa, una delle tante, in un percorso che hanno intrapreso da decenni. Se si domanda ai secessionisti, sono tutti d’accordo: la Repubblica di Catalogna non è considerata un’utopia, ma una realtà che si può raggiungere con una strategia esclusivamente a lungo termine. E per la quale gli indipendentisti sono disposti ad andare avanti nonostante le elezioni abbiano dimostrato che la Catalogna non ha una maggioranza indipendentista, ma è una regione spaccata completamente a metà.

Per realizzare questo obiettivo, è tornato in campo anche Carles Puigdemont, che ha annunciato la nascita del suo nuovo partito: “Chiamata nazionale per la Repubblica”. Secondo l’ex presidente catalano, destituito e fuggito in Belgio per evitare la cattura da parte della polizia spagnola (su di cui le accuse di sedizione e ribellione da patte della giustizia spagnola), il movimento ha già ottenuto 50mila simpatizzanti ed ha come obiettivo quello di raccogliere in una sola sigla tutti i partiti e i movimenti indipendentisti. Obiettivo difficile, vista la spaccatura all’interno dell’area separatista, ma che non è da considerare troppo remoto vista la volontà politica espressa anche da Quim Torra, presidente della Generalitat.

Ma la battaglia si fa anche in altri settori, ed è come una goccia che scava la pietra. La divisione della società catalana è già un realtà, così come la polarizzazione dello scontro. Gli indipendentisti, penetrati in ogni settore della politica, della cultura e dell’economia della regione, hanno già di fatto cercato di sganciare la Catalogna dalla Spagna.

La scuola è forgiata sull’indipendenza, i mercati sono orientati verso l’Europa, e gli immigrati si sentono più catalani che spagnoli al loro arrivo nella regione. La stessa Chiesa catalana vive una profonda divergenza con quella centrale di Madrid, e sono molti gli ecclesiastici che si considerano perfettamente in lincea con la causa indipendentista nonostante una larga area del movimento sia profondamente anticlericale.

Per adesso, l’obiettivo a breve e medio termine voluto dagli indipendentisti è quello della maggiore autonomia. E Pedro Sanchez, salito al potere dopo la caduta di Mariano Rajoy, si è già dimostrato aperto sul tema. Del resto la tattica del movimento separatista è sempre stata questa: alzare il livello dello scontro per ottenere ogni volta sempre più prerogative. Fino a quando, raggiunta una quasi completa autonomia, la sostanziale indipendenza da Madrid avrà superato la forma dell’appartenenza allo Stato spagnolo.

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