L’arresto in Canada di Meng Wanzhou, figlia del fondatore di Huawei e direttrice delle operazioni finanziarie del colosso cinese, segna la brusca fine della breve tregua commerciale concordata a inizio dicembre a Buenos Aires da Donald Trump e Xi Jinping e palesa definitivamente la reale natura del grande scontro geopolitico ed economico che vede coinvolti Cina e Stati Uniti, fondato sulla corsa alla supremazia digitale in settori cruciali come il 5G, la blockchain e l’intelligenza artificiale, motori di una nuova rivoluzione economica che sta andando in scena su base planetaria.

E se già nelle scorse settimane, dall’inizio del braccio di ferro sulle terre rare alla prima offensiva di Trump contro Huawei, si erano avute le avvisaglie di una possibile deflagrazione dello scontro, che il patto di non belligeranza di Buenos Aires sembrava aver sventato, l’arresto di Meng Wanzhou scombina completamente il terreno di gioco. E l’accusa di una violazione delle sanzioni commerciali comminate all’Iran da parte di Huawei appare strumentale in un gioco più ampio.

Come ha scritto Giorgio Cuscito sul penultimo numero di Limes, la Cina ha lanciato la sfida alla supremazia degli Usa in campo tecnologico proprio nei settori dell’Ai e del 5G: “La Repubblica Popolare ha ancora qualche lacuna sul piano quantitativo, ma sta rapidamente colmando il divario con gli Usa grazie al forte sostegno governativo alle aziende tecnologiche nazionali, alla grande quantità di metadati a disposizione e al fenomeno dell’imprenditoria cinese”, mobilitando investimenti per 150 miliardi di dollari.

Per questo motivo, “Washington punta a ostacolare il percorso di crescita tecnologica della Repubblica Popolare, di cui il progetto Made in China 2025 è la colonna portante” e Huawei un altro pilastro fondamentale. A costo di scatenare quella che il vicepresidente del Copasir, Adolfo Urso, ha definito “una nuova guerra fredda che si combatte sulla supremazia tecnologica ed economica”.

Perché il 5G

Il 5G si annuncia come una vera rivoluzione dell’economia tecnologica globale. “La fase che stiamo vivendo è il passaggio tra la rete 4G che finora ha fatto da supporto alla telefonia mobile, a quella 5G: un potenziamento poderoso della velocità di trasmissione dei dati, e della riduzione dei tempi necessari per accedere a quelli memorizzati”, scrive Il Messaggero. “Una volta installato (tra il 2019 e il 2022 per una piena diffusione nei principali Paesi avanzati) lo standard 5G permetterà di rinnovare l’ intero pacchetto commerciale degli smartphone oggi in circolazione, e di realizzare il mitico Internet delle cose, una società assistita e fondamentalmente amministrata dai logaritmi del web: dall’ autopilota all’ automatizzazione dei processi lavorativi”.

Nel 5G Huawei è assolutamente all’avanguardia. “Sulla strada della ricerca di nuovi standard 5G, la Huawei detiene il 12% dei brevetti già depositati; la statunitense Qualcomm ne ha il 15%, la Nokia l11% e la Ericson l’ 8%. A differenza delle concorrenti, la Huawei opera però in un Paese nel quale il controllo statale dell’ industria è molto forte”, e gli Usa temono che Huawei, con il suo operato nelle infrastrutture di telecomunicazione, possa essere utilizzata dal governo di Pechino per incentivare lo spionaggio politico e industriale.

Il “patto delle anglospie” e il Giappone contro il 5G Huawei

Per questo, già nel 2012, l’intelligence a stelle e strisce aveva lanciato l’allarme verso l’utilizzo di tecnologie cinesi nei settori strategici. E non è un caso che tra i Paesi che per primi hanno optato per vietare a Huawei di operare nella costruzione della loro rete 5G vi siano gli alleati di Washington che assieme agli Stati Uniti formano il cosiddetto “patto delle anglospie” (progetto Five Eyes), l’alleanza dei servizi di intelligence dei Paesi di lingua inglese: Gran Bretagna, Canada, Nuova Zelanda, Australia.

Tra gli altri alleati degli Stati Uniti che sono sotto osservazione di Washington per l’utilizzo di tecnologie Huawei nelle loro infrastrutture di comunicazione si segnalano Italia, India e Giappone. Nuova Delhi, per ora, si mantiene a metà del guado, desiderosa di massimizzare la sua posizione tra lo storico partner-rivale cinese e il nuovo alleato americano; l’Italia, a sua volta, è ancora incerta. Luigi Di Maio ha più volte mostrato interesse per le iniziative di Huawei, mentre importanti accademici come Giulio Sapelli hanno da mesi denunciato i rischi per la sicurezza nazionale che una maggior presenza del colosso cinese nel Paese potrebbe comportare. Secondo il già citato Urso, esponente di Fratelli d’Italia, ““il caso Huawei è un altro segnale di quanto importante sia valutare bene gli attori della competizione globale”.

Il Giappone, invece, sembra deciso a sposare la linea di Washington e a procedere col bando di Huawei. Come riporta il Corriere ComunicazioniHuawei, “insieme alla competitor Zte, è finita nel mirino del Giappone: secondo quanto riferiscono il quotidiano nipponico Yomiuri Shimbun e l’agenzia di stampa Jiji, lunedì 10 dicembre potrebbe essere ufficializzata, da parte del governo, la decisione di mettere al mando le soluzioni delle due aziende in nome della tutela della sicurezza nazionale”.

Il governo cinese, per ora, si è limitato alle proteste espresse tramite il Global Times, dichiarandosi pronto a “valutare la tendenza degli Usa ad abusare di procedure giudiziarie per frenare i gruppi cinesi di alta tecnologia”, ma senza annunciare contromosse. Come è nella logica di Pechino, il governo di Xi Jinping punta a tirare dritto sulla sua strada, neutralizzando sul campo le conseguenze dell’offensiva contro Huawei. Una linea di condotta che spingerà gli Stati Uniti a un’alternativa: rispettare l’armistizio di Buenos Aires, e abbassare i toni dopo il duro colpo assestato a Huawei, o tirare dritti sulla competizione con Pechino. Questa seconda opzione aprirebbe scenari veramente preoccupanti.

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