Il Giappone viene considerato dall’opinione pubblica una sorta di paradiso in terra. Eppure, pur con un bassissimo tasso di disoccupazione e la terza economia migliore al mondo, anche il Paese del Sol Levante ha i suoi fantasmi. Se da un punto di vista politico ed economico Tokyo naviga in acque tranquille, i problemi si materializzano quando osserviamo la società nipponica e da più vicino.

Il caso Ghoson

Una delle istituzioni sociali giapponesi finita nel mirino della critica è quella carceraria. Una notizia di pochi giorni fa ci offre la possibilità di analizzare il funzionamento delle carceri locali. Prima i fatti: Carlos Ghoson è stato arrestato lo scorso 19 novembre con l’accusa di frode e illeciti finanziari. Fautore dell’alleanza strategica tra Nissan, Mitsubishi e Renault e presidente di questa triplice alleanza, Ghoson era considerato uno degli uomini più importanti del settore automobilistico. Il tutto fino a pochi giorni fa, quando il manager è stato accusato di aver fornito false informazioni sul proprio reddito e aver manomessi bilanci aziendali. Le irregolarità di Ghoson sarebbero andate avanti per cinque anni. Il gruppo automobilistico, intanto, ha fatto sapere di aver rimosso l’ex patron di Nissan dalla carica di presidente, e che l’alleanza tra le parti non è in discussione.





La prigione di Kosuge

In attesa che la giustizia faccia il proprio corso, Ghoson è stato arrestato e rinchiuso nel carcere di Kosuge, non distante da Tokyo. Le condizioni in cui si trova l’imprenditore sono a dir poco severe, considerando che stiamo parlando di una delle prigioni più infernali del Giappone. L’uomo si trova in una cella di 6,5 metri quadrati ed è sottoposto a un regime duro. Guardie inflessibili e una lunghissima serie di divieti, oltre a un controllo sfrenato che annulla completamente la privacy dei detenuti. Non viene utilizzata violenza fisica, anche perché in un contesto così psicologicamente pressante sarebbe alquanto inutile.

Le condizioni dei detenuti

Funziona così per tutti i detenuti, Ghoson compreso. La cella è munita di un tatami, un futon, un tavolo e un cuscino. Per evitare qualsiasi rischio niente specchi. La porta ha solo una piccola fessura per consentire l’ingresso dei pasti (riso e zuppa). Il detenuto, ogni giorno, è svegliato dalla musica, non può allungarsi sul futron o sedersi al di fuori del tempo concesso per il riposo notturno.

La quotidianità dietro le sbarre

Come passano le giornate i carcerati? Seduti tutto il giorno in una certa posizione sul proprio cuscino. Come svago si possono leggere libri e giornali ed è prevista un’ora d’aria di trenta minuti. La passeggiata, da svolgere in fila indiana con gli altri detenuti sul tetto del carcere, si svolge lungo una linea bianca. Nessuno può muovere la testa a destra o sinistra; si può solo guardare per terra. Inoltre i detenuti hanno il diritto di vedere i rispettivi avvocati solo nelle apposite sedute e mai da soli. Le mogli o parenti possono essere incontrati saltuariamente e alla presenza delle guardie. Le comunicazioni devono avvenire rigorosamente in giapponese.

Una tortura psicologica

In Giappone le leggi parlano chiaro. Ghoson è rimasto in carcere per 23 giorni, il limite massimo nella prima fase burocratica. In questo lasso di tempo il procuratore locale ha raccolto le prove e interrogato il sospettato. Attenzione però, perché qualora lo stesso procuratore decidesse di cambiare capo di imputazione per il manager, la pena detentiva dell’uomo verrebbe prolungata di altri 23 giorni, per un totale di 46. E così è stato.

Il significato del carcere duro giapponese

In linea generale il modello carcerario del Giappone altro non è che un’estremizzazione della stessa società nipponica. I concetti culturali che orientano le persone nella vita di tutti i giorni sono amplificati al massimo, proprio per reintrodurre i detenuti all’interno della comunità. Chi ha sbagliato non può far altro che imparare dai propri errori e redimersi. I valori più importanti che i carcerati assimilano sono tre.

Gerarchia, responsabilità collettiva e annullamento dell’individuo

Il primo è la gerarchia. Sul solco delle altre civiltà confuciane, in Giappone ogni individuo ha un proprio posto nella verticalità dei rapporti umani. Dietro le sbarre i detenuti devono quindi rispettare le guardie nel modo più assoluto. A seguire troviamo la responsabilità collettiva: i membri di una collettività sono responsabili per eventuali illeciti commessi non solo da se stessi, ma anche da uno o più di loro. Il percorso si conclude con l’annichilimento dell’individuo. L’io non conta niente se paragonato al noi. Il fine ultimo del carcere giapponese è quindi quello di annullare lo stesso individuo per reintrodurlo all’interno della comunità civile, organizzata secondo criteri prestabiliti.

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