Quella che si sta per concludere non è stata una settimana come le altre per la Turchia. È iniziata con una retata che ha coinvolto i più importanti ammiragli in pensione del Paese accusati di golpe ed è finita con il “sofa-gate” di Ankara fino ad arrivare alle parole di Mario Draghi nei confronti di Recep Tayyip Erdogan, definito come un “dittatore” dal presidente del Consiglio. I tre episodi sembrano completamente slegati tra loro, almeno in apparenza. Cosa può unire dieci ammiragli accusati di aver firmato un documento che paventava un golpe a una conferenza stampa del premier italiano a Palazzo Chigi? Tutto farebbe propendere per due questioni completamente sperate, eppure esiste un filo conduttore: una sottile linea rossa che lega Ankara a Roma e che fa tappa a Istanbul e Tripoli e che svela uno dei più complessi equilibri di potere del Mediterraneo.

Partiamo dagli arresti che hanno coinvolto gli ex ammiragli turchi, tra i quali l’ideatore di Mavi Vatan, Cem Gurdeniz. Tutto nasce da una dichiarazione con cui 104 personalità legate alla Marina e al mondo nazionalista hanno criticato aspramente l’idea del Canale di Istanbul (il progetto faraonico per creare una via d’acqua parallela al Bosforo) e l’ipotesi di uscire dall’accordo di Montreux del 1936. I mandati di arresto per gli alti ufficiali in pensione della Marina sono il frutto di un sospetto: secondo Erdogan e la magistratura turca quella lettera firmata dai militari ormai non più servizio sarebbe molto simile a certi documenti firmati in concomitanza dei colpi di Stato che hanno coinvolto la Turchia. Ma l’accusa nasconde anche un altro segnale: non solo si ferma un blocco, quello nazionalista e laico, che contesta Kanal Istanbul e l’uscita da Montreux, ma si fa vedere a Russia e Stati Uniti – cioè le due potenze coinvolte nel Bosforo – che la possibilità di escludere il canale dalla Convenzione del 1936 è un’ipotesi reale. Tanto reale che si considera pericoloso chi ne condanna aspramente l’ipotesi, pure se questo significa arrestare un uomo che ha plasmata l’attuale dottrina navale turca.

Alla Russia, l’idea che la Turchia esca da Montreux non piace per nulla. Vladimir Putin ha chiamato Erdogan proprio per esprimergli il punto di vista russo sulla necessità di mantenere vivo l’accordo evitando di manomettere il regime del transito negli Stretti Turchi. Il presidente turco ha voluto evitare di tornare sull’argomento dicendo che per adesso l’uscita non è in discussione, ma è chiaro che l’attenzione del Cremlino è la spia di cosa può succedere dal punto di vista internazionale. Perché se Mosca ha tutto l’interesse a evitare che si infranga l’equilibrio del Mar Nero, a Washington c’è molta curiosità sul punto: specialmente perché avviene in una fase di escalation che riguarda l’Ucraina e le coste meridionali della Russia. Gli Stati Uniti sarebbero molto interessati a un canale escluso da quella convenzione firmata ai tempi di Atatürk e della prima Unione Sovietica. La Convenzione limita non solo il passaggio delle navi militari dei paesi che non si affacciano sul Mar Nero, ma anche il loro stazionamento, limitato a un massimo di 21 giorni. Se la Turchia decidesse di rinegoziare i termini del trattato o escludere il Canale da questa Convenzione, per Washington si concretizzerebbe la possibilità di liberare un choke point fondamentale dando libero sfogo alla libertà di navigazione e all’idea di armare il Mar Nero. E questo Erdogan lo sa benissimo, perché usando quest’offerta e fermando i più alti ufficiali e strateghi anti Usa, il messaggio arrivato in America è chiarissimo.

Il riavvicinamento agognato da Erdogan con gli Stati Uniti chiaramente passa anche per la Libia. E qui viene in gioco l’Italia. È chiaro che la Turchia dalla Tripolitania non se ne andrà così facilmente. Ha inviato droni, armi, navi, mercenari dalla Siria e consiglieri militari: difficilmente abbandonerà il campo senza ottenere garanzie di mantenere il controllo su Tripoli e Misurata e sulle sue maggiori basi in Libia. Ma questo significa che avrà per forza bisogno di un minimo placet americano. Anche perché la Turchia ha già dimostrato di essere molto brava a trattare con la Russia, presente in Cirenaica, pur rimanendo formalmente nella Nato. L’offerta di Kanal Istanbul può sembrare avventata e quasi utopistica: ma è chiaro che a Erdogan in questo momento serve far capire agli Stati Uniti di poter di nuovo fare affidamento sulla Turchia. Una necessità tale da far rispolverare al governo turco anche il tema degli uiguri in Cina, tanto caro all’America ma con il rischio di infastidire il potente partner cinese.

Questo gioco turco ovviamente complica molto le mosse di chi si considera il miglior alleato degli Stati Uniti nel Mediterraneo, e cioè l’Italia. Draghi ha confermato più volte che la sua linea politica è quella europeista e atlantista. Il caso Biot in questo senso è esemplare. Ma è evidente che nella partita libica e in quella del Levante la Turchia ha molte più armi da mostrare a Joe Biden. Il presidente Usa di certo non apprezza Erdogan, ma l’ipotesi di Ankara che torna nell’alveo Nato e che spezza l’asse con Mosca non può essere presa sottogamba. Specialmente perché abbiamo visto come Biden veda come fumo negli occhi sia la Russia che la Cina. Ecco quindi che le parole di Draghi su Erdogan assumono un ben altro significato: la “gaffe” del premier non è evidentemente collegata alla sedie negata a Ursula von der Leyen, ma molto più pragmaticamente serve a tirare una linea rossa tra il modus operandi italiano e quello turco. Per Draghi non c’è possibilità di paragonare i due paesi, a tal punto che considera Erdogan un dittatore con cui collaborare. Concetto decisamente in contrasto con il fatto che la Turchia non è solo un importante partner italiano ma anche un alleato in seno alla Nato. Quell’uscita dopo il viaggio a Tripoli e dopo l’incontro con il nuovo premier libico e con il premier greco Mitsotakis indica un segnale anche da parte dell’Italia: per Palazzo Chigi è Roma il vero referente di Washington nel Mediterraneo.