La visita della speaker della Camera Usa, Nancy Pelosi, a Taiwan, agita l’Indo-Pacifico e acuisce lo scontro tra Pechino e Washington. In piena notte, il ministero degli Affari esteri cinese ha convocato l’ambasciatore americano per “esprimere la forte protesta” riguardo l’arrivo a Taipei di Pelosi visita. Il viceministro degli Esteri cinese, Xie Feng, dice l’emittente Cctv, “ha affermato che Pelosi ha deliberatamente provocato e giocato con il fuoco, violando gravemente il principio dell’unica Cina”.

Per il governo cinese, si tratta di una “una mossa inaccettabile”, per certi versi anche inaspettata quantomeno nelle tempistiche. Di recente, il presidente Usa Joe Biden e l’omologo cinese Xi Jinping avevano avuto un colloqui in videochiamata che  aveva dato segnali di tensioni tra le due parti ma senza il pericolo di un deterioramento repentino. “Chi gioca con il fuoco si brucia” aveva detto Xi Jinping. Ma al netto di avvertimenti che sono sempre stati il frutto del modo di comunicare del Partito comunista cinese, sembrava che al momento la Casa Bianca volesse desistere dal proposito di un viaggio istituzionale che avrebbe provocato l’ira della Repubblica popolare cinese.

Ira che fino a questo momento si è posta su due binari. Il primo, quello della reazione militare, con Pechino che ha fatto alzare in volo i caccia Su-35 non appena l’aereo su cui viaggiava Pelosi ha varcato lo spazio aereo dell’isola e che la Cina considera cieli sotto la propria sovranità. A questo si è aggiunto l’annuncio del ministero della Difesa dell’avvio di operazioni militari mirate vicino lo stretto di Taiwan con test missilistici. Manovre che, secondo i militari di Taipei, sono “un tentativo di minacciare i nostri porti e le aree urbane più importanti, e minano unilateralmente la pace a la stabilità regionali”. Solo oggi, nel giorno della partenza di Pelosi dall’isola. il ministero della Difesa di Taiwan ha affermato che “27 aerei dell’Esercito di liberazione popolare sono entrati nell’area circostante la Repubblica di Cina il 3 agosto 2022”: si tratta, come spiega l’Ansa, di sei mezzi J-11, cinque aerei J-16 e sedici Su-30.

Il secondo binario è rappresentato, invece, dalla reazione economica della Cina. Una possibilità che inizia già adesso ad avere le prime avvisaglie, visto che Pechino ha sospeso l’import di beni alimentari da Taiwan – mossa che grava pesantemente sull’economia dell’isola – e ha sospeso l’esportazione di sabbia naturale. Questa seconda mossa colpisce uno dei pilastri dell’economia di Taiwan ma anche della sua importanza a livello mondiale: la sabbia che arriva dalla Cina è infatti un elemento indispensabile per la produzione di semiconduttori. Un’industria talmente importante che nei giorni scorsi il colosso Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (Tsmc) aveva detto di volere avviare la produzione in Arizona nel 2024: a questo anche per evitare che la Cina fosse ancora fondamentale nel meccanismo di produzione.

Dal punto di vista invece delle relazioni tra Pechino e Washington, la questione si fa naturalmente più complessa perché con questa manovre di Pelosi il rischio non è solo che si apra un fronte di tensioni militari nell’Indo-Pacifico dove è di stanza la Flotta Usa insieme agli alleati degli americani, ma che si ricompatti tutto il fronte alternativo all’Occidente creando le premesse per nuovi focolai anche dove sono presenti interessi cinesi. Non è un caso che il ministero degli Esteri russo abbia subito diramato una nota che definisce la visita della speaker della Camera a Taiwan come “una chiara provocazione nello spirito della linea aggressiva degli Stati Uniti sul contenimento globale della Cina”, confermando la linea di difendere la sovranità dei Paesi su “questioni interne” e che la linea è quella di “una sola Cina, il governo della Repubblica popolare cinese è l’unico governo legittimo che rappresenta tutta la Cina e Taiwan è parte integrante della Cina”. Lo stesso ministro Sergei Lavrov, in viaggio in Myanmar, ha detto che la visita di Pelosi a Taiwan “rispecchia la stessa politica di cui parliamo rispetto alla situazione ucraina. Si tratta del desiderio di dimostrare a tutti la loro impunità e illegalità. ‘Faccio quello che voglio'”.

Il segnale serve a far capire a Pechino che Mosca è dalla sua parte, specialmente in un momento in cui l’asse tra Vladimir Putin e Xi appariva meno cristallina rispetto all’inizio del conflitto in Ucraina. Ma è un messaggio utile anche a ribadire quel fronte di chi si ritiene in pericolo nella sua sovranità rispetto a un’amministrazione Usa che mostra di avere sempre più desiderio di compattare il “blocco delle democrazie” contro gli interessi dei Paesi che non rispettano lo standard dell’ordinamento richiesto da Washington. Ma in generale ora tutti gli alleati della Cina potrebbero mostrare vicinanza alla Repubblica popolare anche in funzione anti Usa. Interessante, in proposito, la mossa del Pakistan, che ha subito affermato il suo “forte impegno” nella politica definita dallo slogan “una sola Cina”, e che ha espresso “preoccupazione per la situazione in evoluzione nello Stretto di Taiwan“. Stesso concetto espresso da Laos, dal Vietnam e soprattutto dalla Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco) – organizzazione che riunisce Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan – e che si è detto “contrario all’ingerenza di forze esterne negli affari interni dei suoi Stati membri”. Della stessa linea Cuba e Venezuela, le quali hanno condannato la scelta di Pelosi di sbarcare a Taiwan, e il leader dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen. Tutti uniti per dare solidarietà a Pechino ma anche per esprimere la loro posizione rispetto agli Stati Uniti e al suo blocco.