L’imminenza del voto presidenziale americano sta portando la competizione elettorale presente ad accentuare, giorno dopo giorno, le peculiarità e le asimmetrie che la stanno differenziando dalle precedenti corse alla Casa Bianca. La sfida tra Hillary Clinton e Donald Trump, infatti, si sta caratterizzando come la battaglia del tranello e dell’insidia contro l’argomentazione logica e razionale, dell’insulto assunto a dominatore onnipervasivo contro la confutazione ragionevole delle tesi dell’avversario, della parzialità più assoluta contro l’onestà intellettuale. Intenti in un continuo e pervicace lavoro di mina, i due sfidanti e i rispettivi staff hanno mostrato dall’inizio della contesa maggiore interesse per la demolizione della piattaforma elettorale degli avversari piuttosto che per l’edificazione della propria. Per mesi questo processo, come era inevitabile, si è autoalimentato incessantemente, mano a mano che Trump e la Clinton estendevano inesorabilmente il proprio campo d’azione e, soprattutto, raffinavano le rispettive tecniche d’attacco. Le modalità con cui gli attacchi volti a screditare, diffamare e squalificare il rivale sono portati avanti, infatti, rispondono ad una logica precisa e rappresentano una componente primaria delle strategie degli aspiranti presidenti.LEGGI ANCHE: Elezioni Usa la posta in giocoUn’analisi dell’ultimo, e più significativo, “scandalo” d’ampia portata emerso nella corsa alla Casa Bianca può aiutare a comprendere le sottigliezze che caratterizzano questo importante e inusuale fenomeno dell’attuale campagna elettorale. L’enorme polemica scoppiata dopo la pubblicazione dello scoop del Washington Post riguardante il fuori onda “sessista” di Trump in un video risalente al 2005 è stata veicolata anche dall’abile sfruttamento da parte degli avversari del tycoon repubblicano di alcuni principi cardini dello spin comunicativo, utilizzati con il preciso intento di colpirlo nella credibilità. In particolare, la completa decontestualizzazione del fuori-onda ha offerto a coloro che attendevano, in un modo o nell’altro, il momento giusto per poter cogliere Trump impreparato l’occasione proficua per colpirne in profondità l’immagine personale e politica.Si parla di “decontestualizzazione” perché è quantomeno ingenuo ritenere che George Pataki, John McCain e tutti gli altri personaggi del mondo politico Usa che hanno espresso indignazione per le parole pronunciate da Trump nel 2005 ignorassero completamente la personalità e l’indole che caratterizzava ai tempi il magnate, notoriamente avvezzo a dichiarazioni colorite e all’uso di espressioni forti, a tratto persino scurrili. La riprovazione contro Trump per le sue dichiarazioni del 2005, di per sé inequivocabilmente indifendibili, ha fornito il paravento ideale per un attacco politico atteso da tempo, in particolar modo dall’establishment del Grand Old Party, che non attendeva altro se non il momento per poter portare a compimento lo strappo nei confronti di un candidato impopolare tra i vertici della formazione conservatrice americana. Sullo stesso solco si è mossa anche Hillary Clinton, che non ha mancato di riproporre la tesi dell’inadeguatezza di Trump per il ruolo di presidente. La decontestualizzazione e il susseguente appiattimento del messaggio politico sullo sfondo di una dichiarazione di altro tono, di fatto, rappresenta l’arma più spesso brandeggiata da Trump, dalla Clinton e dal complesso mondo di sostenitori e oppositori che gravita loro attorno per poter intralciare la marcia dell’avversario: lo stesso Trump ha inquadrato a più riprese nel mirino l’ex First Lady in questa maniera, ad esempio nelle circostanze in cui ha attaccato Hillary Clinton sul terrorismo e l’ISIS. A più riprese, infatti, Trump ha attribuito la maggior parte degli errori della politica mediorientale della seconda amministrazione Obama alle politiche perseguite da Hillary Clinton durante il suo incarico al Dipartimento di Stato, rimandando indirettamente ogni passo falso dell’attuale Presidente agli errori compiuti nel corso della sua prima amministrazione di cui faceva parte anche la candidata democratica.LEGGI ANCHE: La politica estera di Clinton e TrumpVistosa e reiterata è stata anche la campagna di screditamento condotta da Trump e dalla Clinton attraverso lo sdoganamento dell’attacco personale e dell’offensiva frontale contro la persona, la carriera e il carattere dell’avversario, nonché per mezzo della denigrazione sistematica dei suoi sostenitori. L’insulto ha acquisito dunque una sua connotazione politica, altamente funzionale a strategie largamente dominate dalla pars destruens, e così facendo l’appiattimento e la decontestualizzazione di cui si parlava in precedenza vengono ulteriormente, per così dire, “valorizzati”. In un contesto dove la demonizzazione la fa da padrona, infatti, i candidati sanno di dover cercare in continuazione nuove frecce (ma forse sarebbe meglio dire “frecciate”) per il loro arco, di dover rinnovare ciclicamente il loro repertorio di accuse per poter così tenere alta l’attenzione e il livello di guardia dei rivali e dell’opinione pubblica. Come detto, l’onda lunga dell’insulto finisce inevitabilmente per coinvolgere gli ambienti famigliari, politici e sociali che supportano il candidato concorrente, mettendo in moto un’ulteriore dinamica che procede su un doppio binario. Nella campagna elettorale ci si è imbattuti tanto nelle dure frasi rivolte da Hillary Clinton contro gli elettori di Trump, qualificati come “miserabili” dalla portavoce democratica nel mese di settembre quanto nelle polemiche di Trump su Bill Clinton, attaccato tanto sul piano politico quanto su quello personale. Nel primo caso, Trump viene fatto passare come il candidato degli americani meschini, razzisti e retrogradi; nel secondo, sulla figura della Clinton si appiattisce quella del marito, e le accuse nei riguardi dell’ex Presidente finiscono inevitabilmente per coinvolgere anche Hillary, secondo un preciso meccanismo di sovrapposizione.Si può di conseguenza cogliere con chiarezza la tendenza all’autoalimentazione che caratterizza questo meccanismo: settimana dopo settimana, Trump e la Clinton sono costretti ad alzare inevitabilmente il tiro dei loro obici, a cercare nuovi fronti su cui colpire il diretto oppositore. Insulto chiama insulto, in un percorso senza via di uscita che pregiudica inesorabilmente il contenuto concreto del confronto. In una fase storica delicata per gli Stati Uniti, una simile distorsione del sistema politico made in USA, una deriva tanto macroscopica della tradizionale “spettacolarizzazione” della dialettica elettorale tipica della tradizione di oltre Atlantico è stata eloquentemente esemplificata dall’andamento del dibattito tra i due candidati tenutosi a Saint Louis nella serata di domenica, che ha coinciso con il punto di massima tensione della kermesse.Quello che Politico ha definito “il peggior dibattito di tutti i tempi” si è caratterizzato sin dall’inizio chiaramente, e ha rappresentato il più esplicativo paradigma della contesa presidenziale. Tutti gli elementi presi in considerazione sono stati portati all’estremo, e l’atteggiamento del pubblico incaricato di porre le domande ai candidati nel dibattito non ha di certo aiutato a rendere i nervi meno tesi: il mondo informativo USA ha contribuito ampiamente ad enfatizzare la componente personale dello scontro Trump-Clinton dando assoluta preminenza allo scontro verbale tra l’ex First Lady democratica e il magnate repubblicano rispetto alla dialettica tra le loro diverse posizioni concrete, e di conseguenza l’atteggiamento del grande pubblico è stato condizionato nella stessa direzione.Nella serata di Saint Louis si è persa perfino la parvenza di correttezza reciproca mostrata da Trump e dalla Clinton nel precedente confronto diretto: la candidata democratica, sulla scia dello scandalo del Washington Post, ha puntato forte nel tentativo di dimostrare l’impresentabilità di Trump, mentre a sua volta il rappresentante repubblicano non ha risparmiato pesantissime accuse alla rivale riguardanti la sua presunta complicità nella copertura di diversi scandali di natura sessuale riguardanti il marito. Accuse reciproche completamente eradicate dal loro contesto, dalle vicissitudini fiscali di Trump al mailgate della Clinton, sono state brandeggiate a ripetizione e hanno rappresentato il “contenuto” principale di una zuffa confusa che ha lasciato pochissimo spazio alla concretezza.Diplomazia, sicurezza, economia e politiche sociali sono state ulteriormente ridimensionate in negativo: la battaglia di nervi è degenerata in rissa da saloon, e ciò ha negato una volta di più al grande pubblico statunitense ed internazionale la possibilità di ottenere una conoscenza chiara, oggettiva e precisa delle posizioni politiche degli aspiranti presidenti.Il vulnus principale della campagna elettorale è evidente nel momento in cui si considera come la scelta del leader che dovrà guidare gli USA in un momento estremamente delicato si sta contraddistinguendo giorno dopo giorno come il frutto di una gara di popolarità su scala nazionale piuttosto che come la conseguenza di un dibattito veramente democratico. Il quadro appare ancora più complesso se si considera come la reiterazione ostinata e pervicace della strategia dell’attacco a oltranza da parte dei due candidati abbia di fatto impedito loro ogni possibilità di esprimere chiaramente le proprie posizioni politiche e, elemento non secondario, di mettere in luce le reali debolezze di quelle dell’avversario. Una modalità d’azione che ha portato i candidati a tagliare i ponti alle loro spalle, dunque, accompagnerà con ogni probabilità l’ultimo, caldo mese prima del voto dell’8 novembre: la sensazione è che nel gran finale della più caotica e imprevedibile corsa alla Casa Bianca che si ricordi la dimensione degli attacchi e dei tranelli reciprocamente portati da Trump e dalla Clinton sia destinata inevitabilmente a crescere ulteriormente.
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