Svetlana Tikhanovskaya, la principale rivale di Aleksandr Lukashenko, non ha riconosciuto l’esito elettorale e ha accusato il presidente di brogli, chiedendo il ritorno alle urne ed una transizione pacifica verso un nuovo sistema di potere, in altre parole: democratizzazione e fine dell’ordine lukashenkiano.
Il malcontento è stato trasportato dalla rete alle strade e in tarda serata sono scoppiati disordini in 33 città del Paese e a Minsk si è assistito ad una vera propria guerra urbana, terminata con mille arresti e più di 80 feriti. Secondo Lukashenko gli scontri sarebbero stati manovrati da alcuni paesi occidentali e le prove sarebbero l’intercettazione di comunicazioni tra i canali dell’opposizione e l’estero e i tentativi di sconfinamento illegale avvenuti nella notte da parte di agitatori provenienti da Polonia, Russia e Ucraina.
In rete ci si prepara alla rivoluzione
La giornata delle elezioni è stata contornata da una strana caduta dell’infrastruttura di rete nazionale: numerosi siti governativi e non governativi non funzionanti e scarsa o nulla connessione che ha impedito od ostacolato l’accesso a piattaforme e canali sociali come Telegram e VKontakte. Secondo Lukashenko, i problemi di rete sarebbero stati il frutto di un attacco cibernetico su larga scala avente per obiettivo il governo, ma è possibile leggere l’accaduto con un’altra chiave di lettura: l’accesso ad internet è stato limitato fortemente dalle autorità nella consapevolezza che sarebbero esplosi disordini; così agendo si è potuta ridurre temporaneamente la dimensione dell’insurrezione ma fermarla è stato impossibile.
Oggi, la rete è di nuovo funzionante ed è proprio nei canali Telegram e nei gruppi VKontakte che migliaia di persone si stanno organizzando per portare avanti la protesta ad oltranza, fino alle dimissioni di Lukashenko. Sono soprattutto i giovani a guidare le iniziative, diffondendo manifesti e volantini arrecanti informazioni su dove e quando iniziare la protesta e producendo delle brevi guide in cui viene indicato come affrontare uno scontro diretto con le forze dell’ordine.
Nei breviari che stanno venendo condivisi in queste ore da migliaia di utenti si invitano i potenziali riottosi ad acquistare, a reperire o a produrre in casa, materiale ed equipaggiamento per l’autodifesa, come maschere antigas, oggetti contundenti, elmetti, e sono inoltre esposti dei consigli inerenti la condotta da mantenere e le azioni da eseguire in caso di contatto e di scontro.
Ed è sempre in rete che, oltre a programmare le proteste, i lavoratori di diverse fabbriche del Paese hanno organizzato una serie di scioperi, occupazioni e boicottaggi, iniziati il 10 agosto con l’obiettivo di mandare in tilt la produzione ed aumentare pressione sul governo.
Una mano straniera dietro le rivolte?
Nelle stesse ore in cui a Minsk infuriava la rivolta, le guardie di frontiera avrebbero impedito dei tentativi di superamento illegale del confine da parte di cittadini polacchi, russi e ucraini, intenzionati a “fare una Maidan” in Bielorussia, mentre i servizi segreti avrebbero intercettato comunicazioni tra i manifestanti e l’estero, in particolare da Gran Bretagna, Polonia e Repubblica Ceca.
Secondo Lukashenko, inoltre, fra i presenti agli scontri di piazza che hanno scosso Minsk ci sarebbero stati molti professionisti del disordine provenienti da Russia e Ucraina, i quali avrebbero svolto due mansioni in particolare: combattere contro la polizia e tentare di trascinare la capitale nel caos per mezzo di azioni di alto livello, come l’appiccamento di incendi nelle aree centrali.
Lukashenko, quindi, sapeva che qualcosa sarebbe accaduto, ed è per questo che, molto probabilmente, le interruzioni alla rete internet nazionale del 9 agosto non state causate da degli attacchi cibernetici operati dall’estero ma sono state il frutto di un piano anti-insurrezione studiato meticolosamente che, mettendo fuori uso piattaforme sociali popolari come Telegram e VKontakte, è riuscito ad evitare che l’insurrezione si trasformasse in una rivoluzione.
Chiunque sia dietro le violenze, è chiaro che a Minsk non si sono verificati soltanto degli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti ma anche delle battaglie contro dei gruppi di facinorosi, appartenenti all’estrema destra e al tifo calcistico, combattute a colpi di cannoni ad acqua, granate stordenti e proiettili di gomma. Sono stati proprio i gruppi presumibilmente composti da determinate categorie di persone ad aver creato i maggiori problemi alle forze dell’ordine e alle forze speciali, costringendole alla fuga, in quanto caratterizzati da un buon grado di organizzazione e di preparazione allo scontro, armati di ordigni e capaci di resistere e rispondere alle cariche di alleggerimento.
Lo spettro delle interferenze, anche sotto forma di trame volte ad un cambio di regime, ha aleggiato sull’intero periodo elettorale ed è stato agitato regolarmente da Lukashenko. I disordini di ieri, per il modo in cui sono stati organizzati e i problemi che sono riusciti a creare anche alle forze speciali, potrebbero essere la conferma che il presidente non stava bluffando e che dei piani antigovernativi siano effettivamente in essere.
Era stato proprio Lukashenko, il 19 giugno, a dare la notizia di un tentativo golpista in stile Euromaidan sventato dai servizi segreti: “Siamo stati capaci di agire in anticipo e sventare un piano su vasta scala per destabilizzare la Bielorussia e portarla in una specie di Maidan, una rivoluzione orchestrata. Questo era il loro piano. Le maschere sono state tolte non solo ad alcuni burattini che avevamo qui, ma anche ai burattinai che si trovano fuori dalla Bielorussia”.
Lukashenko non aveva fornito ulteriori dettagli sull’avvenimento, lasciando intendere che la rivoluzione colorata fallita avrebbe potuto avere una doppia regia, perché “oggi il focus di tutti gli interessi politici è sulla Bielorussia, sia ad Occidente che ad Oriente”.
Il mese seguente, il 29 luglio, quei timori sembravano aver trovato conferma: un’operazione antiterrorismo aveva condotto all’arresto di 33 cittadini russi, accusati di essere membri del famigerato gruppo Wagner in procinto di disseminare il caos nel paese.
Chi è Svetlana Thikanovskaya
Svetlana Tikhanovskaya è stata la grande sorpresa delle elezioni, colei che ha incusso maggior timore all’ordine costituito che Lukashenko rappresenta e difende, raggiungendo dei traguardi dall’indubbia storicità come il comizio del 30 luglio, il più partecipato della storia del Paese: circa 60mila presenti.
Secondo la commissione elettorale centrale avrebbe ricevuto il 9,9% delle preferenze, mentre secondo i media indipendenti sarebbe stata la candidata più votata in diverse regioni e, quindi, la possibile vincitrice.
Ha corso per la presidenza da indipendente ed è entrata nella partita elettorale in maniera incidentale. Era suo marito, il blogger ed attivista politico Siarhei Tsikhanouski, a dover competere per la presidenza, ma la sua campagna è stata dapprima ostacolata da un arresto e in seguito fermata del tutto dalla commissione elettorale, che ha rifiutato di accettarne la candidatura. A quel punto, il 15 maggio, la Tikhanovskaya ha deciso di concorrere al posto del marito, tentando di recuperare il ritardo per mezzo di una campagna senza freni.
Politicamente è una liberale e nel suo programma ha dedicato molto spazio a tematiche particolarmente sentite dalla gioventù come la corruzione, la democratizzazione e la lotta contro la gerontograzia postsovietica. A livello estero, è promotrice di un programma politico che prevede un allontanamento dalla Russia, con annesso l’annullamento del progetto di fusione dei due Paesi, la costruzione di relazioni amichevoli con il vicinato europeo e la de-russificazione.
Quest’ultimo punto è estremamente importante, oltre che eloquente, poiché la storia recente insegna che la comparsa di forze politiche che sventolano la bandiera della de-russificazione, intesa come la de-costruzione del predominio del russo quale lingua franca delle istituzioni, dell’istruzione e della cultura, è il primo passo verso la fuoriuscita dalla sfera d’influenza di Mosca. È accaduto nei Paesi Baltici, quindi in Georgia e in Ucraina, negli anni recenti la guerra culturale contro il russo si è poi spostata nell’Asia centrale ex sovietica e in Moldavia, e adesso è giunta anche in Bielorussia.