“L’agenda Biden è la mia agenda”, si è impegnato a dichiarare di fronte alle Camere il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nell’ultima sessione di verifica della fiducia al suo esecutivo prima della decisione di salire al Colle per le dimissioni. Uno sfoggio di provincialismo e di scarsa ambizione condiviso da diversi membri della maggioranza, specie in quota Partito Democratico, ma che forse è stato preso fin troppo alla lettera dalla nuova amministrazione di Washington, che non ha sentito la necessità di consultare l’Italia nel primo giro di contatti dopo il suo insediamento.
Oppure, anche complice il malcelato astio provato dai democratici Usa per il “trumpiano” Conte, il (traballante) inquilino di Palazzo Chigi è stato ritenuto semplicemente una seconda linea assieme al suo intero esecutivo. Quando la Casa Bianca ha reso noto il primo giro di telefonate di Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden, il novero dei Paesi contattati non ha stupito: Regno Unito, Francia, Germania, Giappone. Il gotha degli alleati internazionali di Washington (assieme a Israele) e la stretta cerchia con cui Biden e la sua amministrazione intendono definire, sul fronte atlantico e quello pacifico, le nuove strategie geopolitiche. E non può nemmeno valere come giustificazione il fatto che Pietro Benassi, consigliere diplomatico di Conte e sulla carta interlocutore di Sullivan come più prossimo parigrado, abbia recentemente lasciato l’incarico per ottenere la delega ai servizi segreti.
Agli occhi degli Usa sono apparsi come fumo negli occhi i giochi controcorrente condotti dall’Italia nei confronti della Cina nel corso del primo governo Conte e del Venezuela dal 2019 in avanti. Ma non solo: Roma è oggigiorno un attore indebolito come rilevanza geopolitica e diplomatica sul fronte libico, nel confronto con la Turchia e nel quadro degli equilibri mediterranei dopo anni in cui la politica non ha preso in mano con decisione i principali dossier. E se Paesi come Francia e Germania possono proporre a Washington strategie divergenti nei confronti di attori come Iran e Russia, hanno anche gli strumenti di hard power per implementarle, mentre molto spesso l’Italia si trova a metà del guado, costretta al massimo a prendere scelte “di bandiera”.
Segue poi il fatto che, sgretolandosi via via il sostegno americano a Conte e venendo meno anche il consenso dato dal legame diretto con Trump, “Giuseppi” si è sentito più vulnerabile, complice la contemporanea caduta della sua stella anche agli occhi dei potentati europei, con cui il premier ha cercato di ricucire inaugurando la scelta di istituzionalizzazione della sua figura nel campo centrista, liberale e europeista con una svolta “merkeliana” saldata dalla nomina di Benassi.
Il calcolo di Matteo Renzi, nell’accelerazione della crisi di governo in atto, era legato alla consapevolezza che Conte, messo sotto pressione, non avrebbe goduto degli stessi appoggi internazionali che ha avuto dalla sua nel 2019. E così, in effetti, è stato.
Ma il leader di Italia Viva e ex premier, forse, ha sbagliato i conti sul tema della riflessione secondo cui accelerare la marginalizzazione di Conte lo avrebbe favorito agli occhi dei nuovi leader Usa. Un ragionamento “ghibellino” che ha poco a cuore l’interesse nazionale e sconta la pretesa delle nostre classi dirigenti contemporanee di pensarsi decisive e centrali per le amministrazioni a stelle e strisce.
Quando in realtà, più prosaicamente, l’Italia è vista come nazione di secondo piano. E il motivo principale, agli occhi di Washington, non è con ogni probabilità tanto legato alle acrobatiche mosse e contromosse dell’Italia in campo internazionale, quanto a una semplice domanda a cui Roma difficilmente può dare risposta: cosa può aggiungere un’interlocuzione con l’Italia rispetto a quello che un dialogo con la Francia e, soprattutto, la Germania può garantire?
La nomina di Benassi, figura professionalmente impeccabile e dal cursus honorum di primario spessore, in un certo senso lo testimonia: Benassi ha avuto una delega pesante non tanto in virtù del suo specchiato curriculum quanto piuttosto per le sue credenziali di “pontiere” ideale tra Roma e Berlino. Non a caso l’ex ambasciatore in Germania è stato definito “merkeliano”, in quanto fautore di quell’avvicinamento tra l’Italia e l’asse franco-tedesco che molti in seno all’esecutivo perorano da tempo ma che nei due anni passati Conte, dopo la nascita del governo giallorosso, ha piuttosto interpretato nell’ottica di un graduale appiattimento sulle posizioni della Germania in campo internazionale.
Berlino detta i tempi sul Recovery Fund e Roma si adegua, la Germania si intesta le trattative con la Turchia e mette mano al dossier libico e l’Italia non controbatte, il porto di Amburgo punta Trieste per acquisire una quota del suo scalo e il governo italiano non controbatte. Dalla scelta di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione, momento di “incubazione” della nuova maggioranza giallorossa, Conte ha dovuto pagare alla Merkel il pegno di una legittimazione governativa sotto forma di un minor stimolo alla difesa dell’interesse nazionale in Ue. Nascono da queste dinamiche scelte come il via libera italiano alla nuova normativa bancaria sugli Npl o il Mes a favore degli istituti franco-tedeschi che ben corrispondono ai desiderata di Berlino. Che utilità può avere un’interlocuzione con Roma per gli Usa se l’Italia è ritenuta una succursale dell’esecutivo di Berlino?
Certo, Usa e Germania sono e saranno divisi da molte questioni, dal commercio al futuro dell’industria automobilistica passando per il gasdotto North Stream 2, ma Joe Biden sa che in Angela Merkel può trovare un interlocutore con cui portare avanti trattative serrate di valenza politica e strategica. In vista di un accordo tra Paesi alleati che si riconoscono dignità di potenza. Roma, che oscilla tra i riflessi condizionati della fedeltà atlantica e ondeggiamenti pericolosi, in questo contesto è considerata semplicemente superflua, e lo sarà anche in futuro se il governo che succederà al Conte II non seguirà la lezione dell’ambasciatore Giampiero Massolo, direttore dell’Ispi, che ha invitato a usare la stella polare dell’interesse nazionale nel quadro dei rapporti con gli Usa. Ma questo deve valere anche per il rapporto con il dominus dell’Unione Europea attuale, una Germania nei cui confronti il Conte II ha avuto un pericoloso complesso di inferiorità. Che ora scontiamo in termini di irrilevanza geopolitica di fronte alla superpotenza. E nessuno all’interno della maggioranza, da Renzi al Pd, sembra aver mai messo in discussione questo assetto che ci condanna a un ruolo di secondo piano: Conte o non Conte, il problema è endemico.