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Joe Biden si sta impegnando a capovolgere le decisioni di Donald Trump. Eppure alcuni gesti sono simbolici o improduttivi. Altri ricalcano l’approccio di precedenti inquilini della Casa Bianca, confermando che, malgrado il colore dello schieramento, in politica estera i presidenti statunitensi sono proclivi a riprodurre una mentalità comune. Rimane l’interrogativo se si riuscirà ad andare oltre un mero ribaltamento lineare delle posizioni. Dalla gestione dei flussi migratori, alla relazione con quei paesi non allineati al sistema economico capitalista americano, e che si mantengono al di fuori della sua sfera di influenza, per il momento, Washington ancora non dimostra sufficiente creatività, o l’elasticità necessaria, per intavolare un processo di cambio, superatore di schemi già conosciuti o antagonismi che sono retaggio della guerra fredda.

Nonostante l’ostentata prodigalità, il segretario di Stato Antony Blinken, in una videoconferenza con le istituzioni messicane di pochi giorni fa, ha ribadito che la frontiera è chiusa ai movimenti irregolari, e lanciato un appello agli stati latinoamericani, da cui procedono le carovane di migranti, per scoraggiarne i cittadini dall’intraprendere il viaggio verso il sud degli Stati Uniti. La diplomazia ricalca l’intenzione di riformare il sistema per un ingresso sicuro, ordinato e umano al territorio, ma che comunque non si tratterà di una politica di porte aperte e la legge sarà applicata con severità per mantenere la sicurezza. Il messaggio di restare a casa propria non è mutato.

Il blocco dell’espansione del muro con il Messico, peraltro, non contempla il suo abbattimento e, con probabilità, nemmeno la discontinuazione dei contratti già approvati. Il muro, sebbene sia stato uno degli slogan di battaglia di Trump, non solo è di gran lunga anteriore alla sua elezione, ma è stato eretto con notevoli apporti di democratici da Bill Clinton a Barack Obama. Biden affronta l’argomento come se non ne avesse mai avuto a che fare, quando durante il binomio Obama-Biden, in particolare fra il 2009 e il 2010 e il 2011 e il 2012, sono stati costruiti più di 200 chilometri in aggiunta alle esistenti sulla linea di demarcazione a sud-ovest (in antitesi ai 128 di Trump). Inoltre, sono state riparate, riedificate e forticate molte altre, in Texas, Arizona e California, per il deterioramento di agenti esterni.

Va ricordato che tutti questi lavori hanno implicato la demolizione, con cariche dinamitarte, di intere porzioni rocciose dell’orografia locale, la cui erosione, a sua volta, ha riempito e cancellato i canyon attigui, e procurato ingenti sedimentazioni negli estuari fluviali, con conseguenti innondazioni. La modificazione aggressiva del paesaggio ha incluso la predisposizione di terrapieni, e l’ampliamento della superficie transitabile dei ponti di alcune barriere, con l’occupazione di riserve naturali, dove gli statuti federali vietavano lo sviluppo viale ed edile. Le massicce campagne di protesta dei governi federali, che rappresentano 15 milioni di persone, contro Obama, non sortirono effetti tangibili. Di fatto, l’allora presidente ricorse agli stessi meccanismi di uso coercitivo di terre private ed esenzioni a direttive ambientaliste di George W. Bush, generando le medesime tipologie di abuso.

Con la proclamazione del termine dell’emergenza sui 3 mila chilometri di confine, poi, Biden nega l’evidenza di una crisi in atto che non sarà risolta da misure parziali, come la ripresa dell’emissione delle green card e la moratoria sulle deportazioni, o ancora mosse intese a impressionare il segmento degli elettori ispani, come la proposta presentata al congresso per l’uscita dalla clandestinità, nel lungo termine, degli stranieri indocumentati. La fine del discorso dal tono xenofobo di Trump, e delle limitazioni prescritte agli ingressi regolari, aiuterà ad affontare una problematica complessa con lucidità e spirito di cooperazione, ma la rimozione delle cause strutturali della povertà e l’emarginazione in America Latina è un’impresa ciclopica che deve prevedere un dialogo fra pari con i paesi della regione, a cui gli Stati Uniti non sono culturalmente abituati, e presuppone la volontà di oligarchie, che potrebbero non essere propense a concessioni.

Trump aveva guardato di buon occhio all’ascesa del conservatore Nayib Bukele in El Salvador, anche se aveva condannato il governo di Daniel Ortega in Nicaragua, erede discusso della rivoluzione sandinista. L’attuale amministrazione, a prescindere dai proclami, non prelude a sostanziali metamorfosi. Di certo, Biden ribalta l’opinione di Trump su El Salvador, ma senza un piano apparente. D’altro lato, attesta il contrasto storico a realtà che, nel bene e nel male – nel caso del Nicaragua con accezioni a detrimento dei valori democratici -, costituiscono una continuazione delle lotte di sinistra antimperialiste e antiamericane della seconda metà del secolo scorso.

Biden ha rifiutato ogni contatto con Bukele. Questi, pur godendo di popolarità, esercita il mandato con tendenze autoritarie, irrispettose dello stato di diritto, e atteggiamenti divisivi nell’ambito sociale, nonché aggressivi nei confronti di avversari politici e stampa, al punto di non condannare l’attacco armato a un comizio del principale partito oppositore, nel quale simpatizzanti hanno perso la vita. Il giro di vite ha indotto Bukele a stipulare un accordo con una società di lobby per ottenere appoggi nelle camere statunitensi. Biden si è schierato al lato della domanda di democrazia del popolo nicaraguense. Il paese soffre di un profondo malessere politico dal 2018 e il movimento che chiede la convocazione di elezioni ha subito una forte repressione. A ciò si aggiunge la normativa per limitare la presenza di organizzazioni internazionali che velano per i diritti umani e la libertà di espressione. Una lettera del dipartimento di stato esige a Ortega un’inversione di rotta e sono state ingiunte sanzioni economiche al suo stretto circolo, inclusa la moglie, Rosario Murillo, che occupa il ruolo di vice premier.

Sul versante della questione cubana, Biden ha manifestato di voler abolire le restrizioni, introdotte da Trump, sulle rimesse dei lavoratori cubani negli Stati Uniti alle famiglie nei luoghi di origine e riattivare l’opzione per gli americani di viaggiare per turismo nell’isola. Nondimeno, sarà difficile che si spinga più in là. L’apertura di Obama a Cuba, preconizzata nel 2014, avvenne nel suo secondo termine, quando non doveva preoccuparsi della rielezione. Solo in quel frangente ristabilì l’ambasciata americana all’Avana e realizzò la prima visita ufficiale di un presidente statunitense in novant’anni. Al contrario, Biden deve farsi carico delle sue dichiarazioni nel primo termine, con la resistenza di repubblicani e democratici. La rimozione di Cuba dalla lista dei paesi sostenitori del terrorismo non è semplice, per il suo rapporto di scambio con Nicolás Maduro; e la sollevazione delle sanzioni, in particolare quelle sull’acquisto di petrolio venezuelano, pertanto, è impossibile. L’annunciata normalizzazione risiede, quindi, nel campo dell’eventualità.

Il Venezuela è un dossier scottante, così come lo è stato per Trump. Biden ha reiterato il riconoscimento di Juan Guaidó come legittimo presidente. Gli appellativi diretti da membri del suo esecutivo nella direzione di Maduro – dittatore, corrotto, narcotrafficante, e terrorista -, tuttavia, non si discostano dallo stile di Trump. Pure la giustificazione per mantenere chiusa la trattativa raccoglie gli argomenti del tycoon. Blinken ha informato il senato che Biden sta studiando sanzioni mirate a ridurre l’impatto sulla popolazione, di contro alla strategia di massima pressione di Trump, ma il fine è sempre quello di indebolirne l’economia e provocare un rovesciamento di potere. Biden ha l’opportunità di aprire un nuovo corso, dopo anni di tensioni, con un tavolo negoziale auspicato da molti analisti. Lo stesso Maduro, di recente, si è pronunciato a favore di voltare pagina e inaugurare un cammino di rispetto e comprensione mutua. Da questo passo si potrebbe misurare la statura del 46° presidente degli Stati Uniti d’America.

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