Il viaggio del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in Medio Oriente, si preannuncia come uno dei tour più complicati dell’amministrazione democratica. Il capo della Casa Bianca arriva nella regione con l’idea di voler interrompere l’immagine del disimpegno americano, ma dovendo gestire un triplice livello di problemi: uno interno, uno regionale e uno internazionale. Sotto il primo aspetto, Biden parte con una fragilità ormai evidente sul piano del consenso e con le critiche di ampi settori dei media e della politica Usa. L’inflazione e il prezzo del carburante sono pericolosamente elevati per gli standard dell’elettorato americano, nello stesso partito repubblicano c’è aria di fronda interna, e l’indice di popolarità, secondo i sondaggi, è intorno al 33 per cento. Il crollo fa paura, specialmente in vista delle elezioni di medio termine di questo novembre.
Durissimo inoltre l’attacco del Washington Post, che nell’editoriale firmato da Fred Ryan, editore del quotidiano, condanna senza mezzi termini la visita di Biden in Arabia Saudita. Ryan chiede “perché il presidente Biden va ora a Jedda con le ginocchia piegate a stringere la mano sporca di sangue del paria”. Un’accusa che riguarda soprattutto il principe ereditario Mohamed bin Salman, ritenuto il responsabile dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, editorialista proprio del Wp. “Il presidente ha giustificato il suo viaggio come una mossa necessaria per promuovere la stabilità in Medio Oriente e per scoraggiare l’aggressione russa e cinese” scrive l’editore in un articolo in cui campeggia la foto di una mano insanguinata che stringe quella di un uomo in abito elegante. “Ma il presidente dovrebbe sapere” continua l’autore “che l’incontro con bin Salman, o Mbs, come è chiamato, darà al leader saudita esattamente ciò che tre anni di campagne di pubbliche relazioni saudite, spese di lobbying e persino una nuova lega di golf non hanno ottenuto: un ritorno alla rispettabilità”. L’attacco si basa sul rovesciamento delle posizioni di Biden rispetto alla campagna elettorale con cui è andato alla Casa Bianca. L’allora candidato democratico parlava di una futura amministrazione che avrebbe considerato Riad la capitale di un Paese escluso dal consesso internazionale, rinnegando l’asse costruita da Donald Trump negli anni precedenti. Ora le cose sembrano decisamente cambiate: anche se da Washington ribadiscono che i diritti umani saranno comunque al centro dei colloqui che si terranno in settimana tra il leader Usa e il plenipotenziario saudita.
Prima però il viaggio di Biden avrà un’altra tappa fondamentale: Israele. E qui si entra già sul piano regionale. Lo barco del presidente americano nello Stato ebraico giunge in una fase particolarmente critica rispetto al tema che più di tutti è considerato prioritario per Israele: il nucleare iraniano. Le trattative con Teheran vanno molto a rilento e il Yair Lapid – che vedrà Biden prima del presidente Isaac Herzog – vuole capire fin dove possano spingersi gli americani in caso di fallimento dei negoziati sul programma nucleare. Il leader Usa, rispetto al predecessore repubblicano, è apparso meno assertivo nei confronti degli Ayatollah. Trump uscì dal cosiddetto 5+1 denunciando le falle dell’accordo e la sua presidenza fu caratterizzata da momenti di altissima tensione con il Paese mediorientale. Biden ha intrapreso una strategia diversa, ma i risultati, sul piano dell’accordo, stentano ad arrivare. L’idea, spiegano gli osservatori, è che Washington mostri una maggiore fermezza verso Teheran per compiacere Israele e gli Stati arabi preoccupati dal vicino persiano. Ma sembra che l’obiettivo principale del presidente Usa sia quello di benedire un accordo sulla mutua difesa aerea tra Israele e gli Stati arabi che fanno parte degli Accordi di Abramo nella speranza che anche i sauditi si avvicinino definitivamente a questo patto e al riconoscimento dello Stato ebraico.
Per il presidente statunitense, inoltre, è anche prevista una visita a Betlemme per incontrato il presidente palestinese Abu Mazen, ma l’impressione è che quella visita sia una pura cortesia istituzionale: nessuno crede che la Casa Bianca abbia al momento interesse a risolvere almeno parzialmente la questione dei rapporti israelo-palestinesi.
In tutto questo, resta poi il grande nodo strategico degli equilibri mondiali che passano anche per il Medio Oriente. La sfida tra blocco Nato e Russia, che riguarda inevitabilmente il petrolio e il gas, ha implicazioni anche per quella regione così ricca di idrocarburi. Scalfire le certezze dei produttori arabi non sarà semplice, anche per i buoni rapporti da questi costruiti negli ultimi anni con Mosca. Ma Biden, preoccupato dal costo del petrolio, proverà a capire fin dove può arrivare la produzione saudita e il gioco sui prezzi. Un delicato equilibrio che può aiutare anche nella diplomazia parallela con Russia e Ucraina. Un dialogo, quello con i partner mediorientali, che serve al presidente Usa anche per ribadire l’importanza della regione nei riguardi della Cina, la “sfida sistemica” evidenziata anche nel nuovo Concetto Strategico della Nato. La penetrazione di Pechino nell’area tra Mediterraneo orientale e Golfo Persico è un dato di fatto, al pari degl enomri rapporti commerciali che legano i Paesi di questa regione al gigante cinese. Ma Washington ha già fatto capire di avere delle linee rosse: a cominciare dall’alleato israeliano.
Intanto, a poche ore dall’arrivo in Medio Oriente, il presidente Usa ha confermato l’uccisione in Siria di Maher al Agal, leader del sedicente Stato islamico. Il capo della Casa Bianca ha detto che la morte del capo dell’Isis è “un messaggio potente a tutti i terroristi che minacciano la nostra patria e i nostri interessi in tutto il mondo”, ribadendo che “gli Stati Uniti saranno implacabili nei loro sforzi per assicurarli alla giustizia”. Un avvertimento che “apre” il viaggio di Biden tra Israele e Arabia Saudita ricordando uno dei principali punti in agenda dell’amministrazione americana.