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Amore, odio e sottomissione; sono questi i migliori termini con cui si potrebbe riassumere e condensare la natura dell’alleanza fra le due sponde dell’Atlantico. Quale che sia l’appartenenza politica dell’inquilino della Casa Bianca, in effetti, nei confronti dell’Europa è sempre una questione di alternare il bastone e la carota, dosandone il ricorso a seconda della contingenza.

È in errore, quindi, chi interpreta e legge l’imminente inizio dell’era Biden in termini di intervento provvidenziale a favore dell’unità del cosiddetto Occidente. Le origini di quella che si potrebbe definire la “rottura atlantica” antecedono l’ascesa di Donald Trump e possono essere ricondotte alle politiche di Bill Clinton all’epoca della disgregazione della Iugoslavia, de facto contrarie all’interesse europeo e funzionali a sfruttare l’instabilità nell’antica polveriera balcanica ad uso e consumo di Washington.

Non è stato Trump, del resto, ad avviare lo scontro a distanza con la Germania, nel quale è finita coinvolta anche la Francia, e ad imporre all’Unione Europea una rivisitazione globale della sua relazione con la Russia; il presidente uscente ha semplicemente proseguito una partita a scacchi iniziata dal predecessore, Barack Obama, con lo scandalo Dieselgate, le pressioni su Deutsche Bank e Bayer e l’acredine per la politica commerciale tedesca.

Coloro che credono fermamente nel fatto che Biden, che di Obama è stato vicepresidente e di Clinton ha guidato le azioni nella Iugoslavia in frantumi, lavorerà per sanare integralmente la rottura atlantica, hanno una conoscenza epidermica e imprecisa dei meccanismi che regolano la weltanschauung degli Stati Uniti, in particolare del suo rapporto con i cugini europei.

Odi et amo, in aeternum

Stati Uniti ed Europa, alleati, sì, ma non troppo: gli uni dovranno prevaricare sugli altri – sempre – per ragioni tanto pragmatiche, un sistema egemonico è tale fino a che il controllo è esercitato da una potenza in posizione di netta superiorità, quanto storiche, ovvero la memoria di due guerre mondiali scoppiate a causa di rivalità intra-europee e risolte mediante l’intervento salvifico americano.

La comunità euroatlantica non potrebbe esistere se le relazioni fra gli Stati Uniti e le potenze di riferimento del Vecchio Continente, come Francia e Germania, si reggessero su criteri di uguaglianza e parità: le contraddizioni e le divergenze, che neppure il processo di americanizzazione dell’Europa ha annullato totalmente, emergerebbero con forza e condurrebbero l’Occidente al collasso. Il presidente francese Emmanuel Macron, nella celebre intervista rilasciata a Le Grand Continent lo scorso 16 novembre, aveva espresso con chiarezza la validità senza tempo di tale scenario.

In un passaggio squisitamente geofilosofico e di grande rilevanza, Macron aveva affermato che “[noi europei] siamo proiettati in un altro immaginario, legato all’Africa, al Vicino e Medio Oriente, e abbiamo un’altra geografia, che può disallineare i nostri interessi. La nostra politica di vicinato con l’Africa, con il Vicino e Medio Oriente, con la Russia, non è una politica di vicinato per gli Stati Uniti d’America”.

Nella dottrina Macron, in breve, l’Europa è culturalmente parte dell’Occidente ma è geograficamente parte dell’Asia e, per esteso, dell’Eurafrasia; questo è il motivo principale per cui “è insostenibile che la nostra politica internazionale dipenda da loro [Stati Uniti] o che segua le loro orme”. Ciò che per l’Europa è una naturale e fisiologica politica di buon vicinato, per la Casa Bianca – e la storia lo dimostra continuamente – è un affronto punibile con sanzioni, ritorsioni diplomatiche e azioni unilaterali di danneggiamento e boicottaggio dell’agenda di Bruxelles.

Cosa attendersi da Biden?

La premessa iniziale si presta facilmente a distorsioni e misinterpretazioni, perciò è necessario spiegare che cosa potrebbe accadere fra le due sponde dell’Atlantico dal 20 gennaio 2021, giorno dell’inaugurazione dell’amministrazione Biden, al 2024. Il futuro presidente degli Stati Uniti è uno dei padrini del Partito Democratico, convinto appartenente alla scuola dell’internazionalismo liberale e sostenitore del multilateralismo.

Biden aveva preannunciato che, se eletto, avrebbe cessato il braccio di ferro con quelle organizzazioni internazionali realizzate da Washington all’indomani del secondo dopoguerra per costruire un ordine liberale americano-centrico, che sarebbe rientrato negli accordi di Parigi sul clima e che avrebbe posto fine alla peculiare linea trumpiana dell’amoreggiamento con gli autoritarismi e i populismi di destra.

Nel quadro della lotta al populismo di destra è altamente probabile che si assisterà ad una riduzione del supporto all’alleanza Visegrad, ragion per cui Diritto e Giustizia ha promesso di rivedere parte della propria agenda estera ed è possibile che Fidesz seguirà tale esempio, ma ciò non equivarrà automaticamente ad una fine del confronto con l’asse Parigi-Berlino. La questione Visegrad, per Biden, è puramente ideologica; il mantenimento dell’Ue in una condizione di subalternità rispetto agli Stati Uniti, invece, è un imperativo dal quale dipende l’idea stessa di pax americana. In breve, cambieranno i mezzi, ma il fine resterà immutato.

Il multilateralismo, e non l’uso strumentale dell’euroscetticismo, potrebbe essere l’instrumentum regni di Biden: richiamo all’unità, in realtà una coesione coercitiva, per prevenire, rallentare e ritardare la formazione della cosiddetta “autonomia strategica europea” caldeggiata da Macron. Questo tipo di multilateralismo è stato utilizzato più volte, e con successo, nella storia recente degli Stati Uniti: dalla “coalizione dei volenterosi” di George Bush Jr alla politica delle sanzioni antirusse di Obama.

Il multilateralismo non è (soltanto) un modo per dimostrare la tenuta e la solidità dell’Occidente, è anche uno strumento funzionale ad evitare che i cugini europei distanzino eccessivamente le loro politiche estere da quella della casa madre, ossia gli Stati Uniti. Il regime sanzionatorio antirusso, ad esempio, è stato ideato e implementato più per allontanare l’Ue, in particolare la Germania, dalla Russia che per punire le azioni di quest’ultima in Ucraina.

Il rapporto continuerà ad essere complicato

L’ascesa di Biden, in definitiva, non avrà delle ricadute particolarmente benefiche per l’Ue: la Germania continuerà ad essere oggetto di pressioni variopinte per via del suo potere economico e della necessità di impedire un asse con la Russia e con la Cina, la Francia vedrà evaporare i sogni di autonomia strategica europea a causa del rientro in scena del multilateralismo, e Paesi come Polonia e Ungheria potrebbero assistere ad un aumento dell’instabilità sociale e politica al loro interno.

Il tono dello scontro silenzioso fra le due sponde dell’Atlantico sarà meno acceso e visibile, avverrà lontano dai riflettori e sarà addolcito, o completamente ignorato, da quelle realtà dell’informazione e dell’analisi politica che non hanno compreso quanto profonda sia la rottura atlantica.

Biden, sicuramente, assumerà una postura più consona al ruolo, abbandonando lo stile volutamente irriverente del predecessore, e mostrerà anche una propensione maggiore al do ut des con gli alleati europei, ma non rappresenterà la panacea alle patologie che affliggono l’Occidente. La rottura atlantica, infatti, è un male cronico il cui superamento potrà avere luogo soltanto per completa americanizzazione dell’Europa, ovvero con la fine delle aspirazioni di autonomia di Berlino e Parigi, o per disaccoppiamento, ossia con la trasformazione dell’Ue in un blocco di potere a se stante e sufficientemente autonomo dagli Stati Uniti.

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