Favela, slum, villa miseria, bidonville, township, shanty town, esiste una pluralità di nomi che varia da continente a continente per descrivere però un’unica realtà, quella delle baraccopoli. Le baraccopoli infatti, seppur a latitudini diverse, sono universalmente la fotografia della povertà e dell’indigenza. Sono luoghi, tutti questi, dall’America Latina all’Africa, dove non c’è acqua corrente e neppure elettricità, i canali di scolo, nella maggior parte dei casi, sono a cielo aperto, infezioni e malattie proliferano, la violenza è la legge della disperazione e stato e politiche sociali, lì nei bassifondi, spesso latitano.
Ma, dove c’è della miseria, negli anni si è sviluppato anche del turismo. Difficile da comprendere, disorienta e disarma, ma così è. Vouyerismo inclemente e safari umani da parte di viaggiatori e turisti stanno sempre più prendendo piede.
In Sud Africa un hotel di lusso offre ai suoi clienti la possibilità di dormire in un finto slum, per il gusto di giocare ad essere poveri, e tutto al prezzo di 82 dollari a notte.
In Perù, in Brasile, a Mumbai e in Kenya sono nati dei tour operator che accompagnano i turisti a effettuare visite guidate delle township, devolvendo, in alcuni casi, parte dei proventi della gita alla comunità della bidonville. Ma è proprio dalla comunità di cittadini che vive nello slum di Kibera in Kenya che ora si è alzato un grido di protesta: ”Noi non siamo animali selvatici”.
A raccontare quanto sta avvenendo nello slum di Kibera, a Nairobi, dove vivono, secondo un censimento del 2009 170mila persone, ma secondo altre fonti sono oltre 2 milioni i residenti, è Osman Mohamed Osman corrispondente di Al Jazeera. Il cronista dell’emittente qatariota ha incontrato alcuni residenti della shanty town che hanno manifestato senza mezze misure sdegno ed esasperazione nei confronti delle compagnie turistiche e dei visitatori che si aggirano nel dedalo di stamberghe scattando foto come se fossero in uno zoo o stessero facendo un safari naturalistico.
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Sylestine Awino, madre di tre figlie ha raccontato la sua storia: ”Io e la mia famiglia non ci possiamo permettere tre pasti al giorno, viviamo in una condizione estremamente difficile. Prima abitavo a Mombasa, nel 2013 ho deciso di trasferirmi a Nairobi sperando che ci fossero maggiori opportunità. Quando vivevo a Mombasa vedevo turisti americani ed europei che venivano a godere delle spiagge e scattavano le foto alle nostre bellezze paesaggistiche, oggi quegli stessi turisti li ritrovo qua, in questo slum. È scioccante vedere turisti che si aggirano per questo quartiere a scattare foto ricordo della miseria altrui”. Poi Awino prosegue: ”Una volta un gruppo di visitatori mi si è avvicinato e volevano fotografarmi, mi sono sentita un oggetto, volevo gridare contro di loro ma avevo paura delle guide”.
Il turismo a Kibera è aumentato negli ultimi dieci anni, sono nate compagnie turistiche che offrono visite guidate e alcune delle guide sono proprio i residenti che in questo modo cercano di portare a casa uno stipendio. Una delle compagnie turistiche specializzate in questo tipo di servizio è Kibera Tours, nata nel 2008, ogni anno attira oltre 150 visitatori e offre, al costo di 30 dollari a persona, una visita di tre ore dello slum.
Il cofondatore Frederick Otieno, ai microfoni di Al Jazeera, ha così parlato: ‘”L’idea alla base era semplicemente quella di mostrare il lato positivo di Kibera e promuovere progetti all’interno della baraccopoli. Così abbiamo creato un impiego per noi stessi e per i giovani che ci circondano”. E una delle guide è Willis Ouma che ha 22 anni e spiega: ”Per tre anni, ogni weekend, ho accompagnato i turisti e con i proventi mi sono aperto un’attività di vendita delle uova. Ai visitatori piace, ma molti residenti sono contrari”.
E tra i contrari c’è Musa Hussein, 67 anni, che senza mezze misure ha aggiunto: “Kibera non è un parco nazionale e noi non siamo animali selvatici”. E poi ha spiegato che mostrare a pochi ricchi come vivono molti poveri è moralmente sbagliato e le compagnie turistiche dovrebbero smettere di offrire questo tipo di servizio. E a dargli man forte poi è stata di nuovo Sylestine Awino che ha concluso con una domanda: ”Se noi africani venissimo in Europa o negli Usa a fotografare i poveri occidentali, quale sarebbe la vostra reazione?”.