L’attacco statunitense alla base di Al Shayrat per mezzo di 59 missili Tomahawk, cambia radicalmente la narrativa del conflitto in Siria. Una guerra per procura animata dalle potenze mondiali che si combatte da 6 lunghi anni e che coinvolge un intreccio complesso di attori direttamente interessati: da una parte le monarchie del Golfo e la Turchia, supportati dall’Occidente, che vorrebbero la destituzione di Bashar al-Assad; dall’altra la Repubblica Islamica dell’Iran e la Federazione Russa che, insieme ad Hezbollah, sono i fedeli alleati del presidente alawita. Ma a sostenere indirettamente il governo siriano ci sono anche Bolivia, Venezuela, Cina e, in parte anche l’Egitto. Un fronte ben più ampio di quanto si pensi.A 100 anni esatti dalla dichiarazione di guerra degli Usa all’Impero Tedesco – era il 6 aprile 1917 – si assiste a una prima giravolta della politica estera di Donald Trump: il ridimensionato del “guru” Steve Bannon, spiana la strada al «Deep State» che aveva precedentemente osteggiato il tycoon sin qui. Quanto questo processo sia arrivato al suo compimento, lo si valuterà nelle prossime settimane. Ma per quanto questa prova muscolare sia «dimostrativa» – il Cremlino era stato preventivamente avvisato dell’attacco, e la base era semi-deserta – questo atto avrà delle implicazioni. E forse non così positive come Trump può pensare, benché sul fronte interno – quello dei servizi e dell’apparato Usa – The Donald qualche consenso in più ora lo abbia. Compresa quello della ex rivale Hillary Clinton e di numerosi esponenti democratici che plaudono all’iniziativa del presidente Usa.Le implicazioni della “prova muscolare”Al di là delle inevitabili e prevedibili reazioni a breve termine di Mosca, vi potrebbero essere, dunque, anche delle implicazioni sul medio-lungo periodo. Le analizza Kori Schake sull’autorevole rivista statunitense Foreign Policy: «Gli alleati degli Stati Uniti nel Medio Oriente erano preoccupati circa la serietà della Casa Bianca quando Obama si rifiutò di far valere la sua linea rossa in Siria. Ora sono sollevati nel vedere che Trump non è così refrattario nel far rispettare la sua. Questa però potrebbe essere pericoloso per gli Stati Uniti. I russi potrebbero decidere di aumentare l’impegno verso Assad. Inoltre le forze militari e di Intelligence siriane potrebbero colpire gli americani che operano in Siria e Iraq, così come potrebbero fare gli iraniani. L’Iran, inoltre, potrebbe valutare di riprendere il suo programma nucleare».Una mossa preparata da tempo?Secondo l’analista siriano Taleb Ibrahim, direttore del Damascus Centre for Strategic Studies, la reazione al presunto attacco con armi chimiche di Bashar al-Assad è solo un pretesto ed era preparata da tempo: “Non è possibile lanciare un attacco missilistico di questo genere nel giro di 24 ore – osserva – occorre prepararlo per settimane. Questo perché i tomahawk hanno bisogno di un’elevata precisione e bisogna programmare l’attacco settimane prima, non come hanno fatto gli Stati Uniti. E’ impossibile».Messaggio a Xi-JipingTra i destinatari della prova muscolare dell’amministrazione Trump c’è il presidente cinese Xi-Jinping. La delegazione cinese che ha incontrato Donald Trump ha lasciato la località di Mar-a-lago, in Florida, cinque minuti dopo l’avvio dell’attacco missilistico. Forse è più di una banale coincidenza. Da ricordare che la Cina si è sempre schierata con la Siria – e di conseguenza con la Russia – in sede ONU, mettendo il veto su tutte le iniziative dell’Occidente. «L’attacco – osservano Emily Tamkin e Robbie Gramer su Foreign Policy – il primo degli Stati Uniti in Siria contro Assad, vuole lanciare un avvertimento a Xi Jinping circa la determinazione americana – e come intende trattare le vicende della Corea del Nord e quella relativa alla libera navigazione nel Mar Cinese Meridionale.Il Pentagono era irritato dalla mancanza di volontà della Casa Bianca e di Barack Obama di reagire contro la Cina».Questo trova conferma nel fatto che il Segretario di Stato americano Rex Tillerson ha più volte affermato di voler impedire l’accesso alla Cina delle isole di cui reclama la sovranità.





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