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Mario Draghi è destinato a ritrovarsi protagonista degli equilibri politico-economici italiani ed internazionali anche dopo la fine del suo mandato alla guida della Bce, prevista per il prossimo autunno. Se prima del voto italiano del 4 marzo 2018 per l’ex governatore della Banca d’Italia la strada sembrava spianata verso la successione a Sergio Mattarella al Quirinale nel 2022, l’accelerazione degli scenari politici ha cambiato notevolmente le carte in tavola.

Draghi è, oggigiorno, la figura dell’establishment italiano più rilevante a livello globale, forte del suo lungo mandato all’Eurotower e della centralità acquisita dalla Bce nel corso della sua gestione come istituzione “commissaria” dell’Europa, centrale nei periodi d’emergenza. Nonostante tutti i limiti del quantitative easing da lui diretto, Draghi si è confermato dal 2012 in avanti come unica alternativa credibile alla linea del rigore e dell’austerità a tutti i costi incarnata dalla Germania di Angela Merkel. Al tempo stesso, paradossalmente, gli spazi di manovra nel nostro Paese sono per lui limitati dalla situazione istituzionale e dalla presenza, nel governo, del Movimento Cinque Stelle che più volte ha polemizzato con la sua figura (mentre la Lega e Matteo Salvini ne hanno a più riprese parlato positivamente).

Mattarella prepara a Draghi il posto da senatore a vita

A sbloccare l’impasse su Draghi potrebbe essere, nel prossimo futuro, proprio Sergio Mattarella. Come riportato da Luigi Bisignani su Il Tempo, infatti, da tempo nei palazzi romani circola la voce che il Quirinale potrebbe nei prossimi mesi procedere alla nomina di Draghi a Senatore a vita per consentirgli un rientro in grande stile nella politica italiana.

Secondo Bisignani, “Draghi, formazione dai gesuiti, è il perfetto “grand commis” per tutte le stagioni”, l’uomo giusto per mettere sotto pressione la Lega e il Movimento Cinque Stelle, ma anche le figure “terze” che guidano (Giuseppe Conte) o reggono ministeri fondamentali (Moavero, Tria) nel governo nei cui confronti Mattarella comincia a nutrire crescente sfiducia dopo l’iniziale sintonia. Il paragone principale potrebbe essere fatto con la scelta di Giorgio Napolitano di nominare Mario Monti senatore a vita prima di affidargli la guida del governo tecnico subentrato all’esecutivo di Silvio Berlusconi nel 2011, ma la realtà è molto più complessa.

Introdurre Draghi in politica sarebbe, dal punto di vista di Mattarella, una mossa più articolata, volta a compattare una precisa area politica (il centro e l’area che va dal Pd a Forza Italia) attorno a una figura dotata di spessore e soggettività politica ma anche, al tempo stesso, a lanciare un messaggio agli Stati Uniti, che non potrebbero non guardare con interesse una discesa nell’agone di Draghi.

Gli attriti tra Washington e Roma

Una tendenza superficiale dell’analisi politica contemporanea tende a sopravvalutare l’effetto dei cicli elettorali sulle politiche estere di lungo termine dei Paesi. Questo è vero, in particolar modo, per gli Stati Uniti dell’era Trump. Immaginare una corsia preferenziale per l’Italia dovuta ai comuni sentimenti “sovranisti” dell’amministrazione e del governo Conte è stata una pia illusione che per il nostro esecutivo è terminato con un brusco risveglio negli ultimi mesi.

La politica estera ha una componente fissa che difficilmente muta: Washington ha puntato forte su Roma in quanto l’esecutivo si è mostrato, per diversi mesi, fedelmente atlantista, allineato alla potenza egemone d’Oltreoceano e funzionale alla strategia statunitense che mirava a creare un perno nel fronte europeo, in ossequio al principio del divide et impera, e alla ricerca di un socio di minoranza con cui dividere le incombenze nel Mediterraneo allargato.

In cambio, l’Italia ha usufruito dell’ombrello statunitense nella difficile fase della scrittura della manovra finanziaria. In seguito, i motivi di incomprensione si sono moltiplicati: dalle esitazioni, in larga misura legittime, dell’Italia sulla crisi venezuelana alla politica energetica, fino ad arrivare al decisivo caso della firma del memorandum italo-cinese, Washington è rimasta stupita dalle oscillazioni dell’Italia. Tanto che importanti membri dell’amministrazione come Mike Pomepo, John Bolton e Lindsey Graham hanno lasciato intendere il percepibile nervosismo verso le scelte del governo giallo-verde. Le preoccupanti notizie del contesto economico globale e il rischio di una recessione planetaria non aiutano a rendere il quadro meno complesso.

Washington gradisce Mario Draghi

“I temi di confronto sono dunque molti e non gestibili con formule ideologiche né tantomeno senza concertazione multilaterale”, scrive Affari Italiani. “Da questo punto di vista, il crescente isolamento internazionale dell’Italia è preoccupante, così come l’apparente mancanza di un rapporto di fiducia tra la maggioranza di governo e i mercati. I comportamenti incoerenti in politica estera non danno un colpo al cerchio e uno alla botte, ma un solo fragoroso colpo alla affidabilità internazionale del Paese”.

Mario Draghi, in questo contesto, offrirebbe agli Stati Uniti le credenziali di fedeltà agli Stati Uniti e alla Nato che Mattarella ha esplicitamente dichiarato di voler vedere rispettate nella legislatura, ma per le sue frequentazioni lavorative in Goldman Sachs e i suoi trascorsi alla Bce appare anche l’uomo più gradito all’élite finanziaria statunitense che non avrebbe remore ad abbandonare Roma se le incomprensioni con Washington si inasprissero.

Il senso di Draghi per gli Usa

Sergio Vento, già Ambasciatore italiano in Usa e Presidente di Italia Atlantica, ha dichiarato ad Affari Italiani che “Draghi capisce la complessità dell’incrocio tra dossier economici ed equilibri geopolitici ed è dunque il profilo più dotato di competenza e prestigio personale, per gestire l’economia e ricostruire la credibilità internazionale dell’Italia”. Per Washington, inoltre, Draghi rappresenta una garanzia anche in virtù della fiducia accordatagli da Barack Obama dopo la sua nomina alla guida della Bce, che vide gli Usa sponsor del banchiere romano come utile antemurale all’ottuso rigore della Merkel.

Allora si trattava di evitare il collasso dell’Ue per preservare intatti i grandi progetti di integrazione commerciale poi tramontati (Ttip in primis), ora di ribadire la scelta atlantica dell’Italia e, come ha fatto notare di recente Angelo Panebianco, dare all’area più strettamente filoamericana della politica italiana una figura di riferimento. Presto, dunque, il Quirinale e Washington potrebbero muoversi in concerto. Ben consapevoli che non si tratta di un’operazione Monti-bis, ma bensì di avvertire il governo Lega-M5S circa l’esistenza di una potenziale corrente di potere alternativa nei palazzi istituzionali. E, in prospettiva, fugare il rischio di elezioni anticipate dovute a una possibile fine della maggioranza. Elemento di instabilità per il Paese specie in una congiuntura economica e geopolitica tanto delicata.

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