Il fuoco amico, si sa, è quanto di più pericoloso possa esserci. Di solito è un colpo alle spalle, sicuramente inaspettato, e nella maggior parte dei casi, i sospetti che si annidano nella mente di chi lo subisce o di chi osserva non terminano mai. “È stato davvero un incidente?” è la domanda che ricorre più spesso. E ci si domanda se si sia fatto il possibile per evitare la tragedia.
Probabilmente è proprio questo sospetto che aleggia in larga parte di Palazzo Chigi, visto che un governo che già si regge su delicatissimi equilibri nazionali e internazionali ha ricevuto l’ennesimo colpo da parte di uno dei suoi maggiori sponsor: Beppe Grillo, fondatore e guru del M5S che ha pensato bene di incontrare Li Junhua, ambasciatore cinese a Roma. Un vertice che è più di un semplice incontro, visto che in un clima ormai di nuova Guerra fredda, è impossibile considerare questi incontri come semplici scambi di cortesia. Lo sa Grillo, che da leader di un partito di governo non può non essere consapevole del valore di questi meeting. E lo sanno certamente anche all’ambasciata cinese, dal momento che le fonti parlano di un incontro voluto fortemente proprio dagli uffici di via Bruxelles, sede della rappresentanza asiatica a Roma. Grillo l’ha buttata sulla risata: “Gli ho portato il pesto”. Ma è cristallino che questo incontro abbia un altro tipo di caratura. Specialmente dopo il viaggio di Luigi di Maio a Pechino ha voluto ricompattare il fronte filo-cinese nel Movimento e all’interno del governo. In questo senso, sono state chiarissime le parole dure di Matteo Salvini ma soprattutto molto interessanti quelle di Adolfo Urso, vice presidente del Copasir, che si è domandato: “Chissà perché Beppe Grillo abbia ritenuto di rassicurare la Cina sulla tenuta del governo Conte, dopo l’incontro con Di Maio”. Una critica politica che arriva però dall’intelligence.
Ed è proprio sul filone dell’intelligence e della posizione internazionale dell’Italia che questo incontro può assumere un valore ben diverso. E torniamo, per l’appunto, a quel “fuoco amico” di cui si parlava al’inizio. Perché se è vero che Giuseppe Conte è il premier “incaricato” dal Movimento di Grillo per guidare prima l’alleanza gialloverde poi quella giallorossa, è anche vero che il presidente del Consiglio ha saputo reggere agli urti della fine della prima maggioranza grazie al sostengo di un’altra superpotenza: gli Stati Uniti. E senza quel tweet sibillino di Donald Trump verso “Giuseppi” forse non si sarebbero mosse alcune pedine che hanno permesso la nascita del Conte bis. Tanto è vero che lo stesso premier per prima cosa ha dovuto subito sdebitarsi con l’amministrazione americana e con la Nato approvando il decreto sul golden power che limita, nei fatti, l’ingresso dei colossi asiatici nella rete 5g. Una prova di fedeltà imprescindibile, ma che serviva soprattutto a disperdere i dubbi di un governo (quello di Washington) che ha sempre visto con sospetto le mosse estere dei pentastellati, che dal Venezuela all’Iran passando per impegni Nato, Cina e Russia, non hanno mai disdegnato un approccio eclettico nel mondo che sfidasse proprio le richieste della Casa Bianca.
Scelte coraggiose, si dirà. Vero. Il problema è che mentre gli alleati di Conte sfidano gli Stati Uniti, dall’altra parte lo stesso premier flirta con gli Usa sia sul fronte dello Spygate che su quello personale con the Donald, chiede esenzioni sulle sanzioni all’Iran, spera nel sostegno in Libia e soprattutto confida che la Lockheed Martin sconti e resti in attesa che l’Italia paghi gli F-35 evitando anche l’impegno all’aumento del budget per la Nato. Di fronte a questo complesso meccanismo di richieste, è chiaro che gli Stati Uniti chiedano in cambio un governo allineato. Cosa che l’M5S non è mai riuscito a garantire né con Di Maio ministro dello Sviluppo economico né con Di Maio ministro degli Esteri. E adesso, la scudisciata di Grillo all’ambasciata cinese – contemporanea all’allineamento di Conte con l’asse franco-tedesco in Europa -potrebbe essere l’ultimo campanello d’allarme per gli Stati Uniti. Che per “Giuseppi” potrebbe trasformarsi nell’ultimo avvertimento.
L’impressione è che il vertice tra Grillo e Li Jinhua possa essere quindi molto più foriero di conseguenze di quanto si voglia pensare. E soprattutto di quanto voglia far credere lo stesso ex comico. Il ponte tra Pechino e Cinque Stelle passa non solo per Di Maio, ma anche per i piani di Grillo che, da sponsor del nuovo governo con il Partito democratico ora diventa anche un fiero sostenitore dell’apertura alla Cina. E non è un caso che questa nuova alleanza parlamentare tra Pd e M5s passi anche per la possibile elezione di un presidente della Repubblica che potrebbe essere proprio quel Romano Prodi che ha da sempre ottimi rapporti con l’Ue e con la Cina. Un filo rosso, giallorosso, che lega Pechino e Roma via Genova. Ma il governo deve stare attento: gli Stati Uniti hanno il potere di decidere come e quando staccare la spina. E questa corrispondenza d’amorosi sensi potrebbe avere effetti molto gravi.