La Cina ha diversi (e soprattutto pragmatici) motivi per coltivare le relazioni con Israele, primi tra tutti la tecnologia agroalimentare e del trattamento delle acque, l’esperienza nella lotta al terrorismo e le politiche di difesa. Pechino però era ed è legato alla Palestina: la simpatia tra i due Paesi risale agli anni ‘60, e in sede Onu la Cina ha sistematicamente votato a favore di dello Stato palestinese, dichiarando sempre che il rispetto dei confini del 1967 è la base per la soluzione della crisi della regione.

È quindi lecito chiedersi, alla luce delle ambizioni cinesi, del crescente peso economico di Pechino e dell’importanza di questa regione per il successo della Belt and Road Initiative (BRI), se Pechino potrà e vorrà assumere un ruolo di leadership nel processo di pacificazione del Medio Oriente.

Nel dicembre 2017, dopo che il Presidente Trump decise di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, la Cina e tutti i membri del Consiglio di Sicurezza votarono a favore del mantenimento delle precedenti risoluzioni Onu riguardanti Gerusalemme. Quando Washington pose il veto, il voto passò all’Assemblea Generale, che con 128 voti a favore promulgò una risoluzione con cui chiedeva a Washington di ritrattare la dichiarazione del 6 dicembre. Mentre l’Assemblea Generale votava, Pechino ospitava il Simposio sulla Pace Israelo – Palestinese, a cui hanno partecipato otto tra delegati israeliani e palestinesi e sette delegati cinesi. Questo simposio, che è il terzo del suo genere – i primi due risalgono rispettivamente al 2003 e al 2006 -, è indicativo del profondo interesse di Pechino per il Medio Oriente.

La Repubblica popolare cinese ha sempre supportato la causa palestinese. Sotto la guida del Grande Timoniere, Pechino vedeva negli Stati Arabi e Israele dei burattini regionali che giocavano la partita imperialista per conto di Mosca e Washington, la cui presenza non lasciava a Pechino alcuno spazio di manovra. Il suo supporto andava all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, a cui negli anni ‘60 fornì armi. È stato solo dopo la morte del presidente Mao che Pechino si è lentamente riavvicinata ad Israele, e dagli anni ‘80 le relazioni di Pechino con Israele e Palestina separano il conflitto, in cui il coinvolgimento cinese è stato finora fondamentalmente simbolico, dalle necessità economiche.

Le attività di Pechino nel Medio Oriente sono sfaccettate: mentre i suoi scambi commerciali ed accademici con Israele crescono, continua a dipendere da Iran e Arabia Saudita per l’approvvigionamento di petrolio, e il suo legame militare con l’Iran è ancora più forte. D’altra parte Israele gode di una “relazione speciale” con gli Stati Uniti d’America e fornisce armi all’India, rivale storico della Cina. La relazione sino-israeliana è economica: per Israele il mercato cinese è un mezzo per sganciarsi dallo stagnante mercato europeo, mentre per la Repubblica popolare cinese rappresenta l’accesso a nuove tecnologie e utili best practicies nella difesa e nella lotta al terrorismo. Il peso economico di Pechino è sufficiente per far partecipare Israele ad incontri che non comportano impegni vincolanti, ma non è tale da costringerlo a fare concessioni. Israele accetta i simposi e limita le proteste, consapevole che se la Rpc potesse imporre una soluzione al conflitto non accetterebbe di implementare progetti che di fatto consolidano lo status quo.

Invece i progetti legati alla Bri proseguono, e con loro si rafforzano i vantaggi strutturali di cui Israele gode, mentre Pechino rilascia dichiarazioni – l’ultima risale al 5 luglio 2019, durante il consulto ministeriale per il Medio Oriente dei Brics – in cui rinnova il suo impegno per il raggiungimento di una soluzione basata sui confini del 1967 ed evita tutti gli scenari in cui sarebbe costretta a chiedere un impegno vincolante alle parti. Indicativo è il fatto che Pechino non abbia raccolto il mantello di negoziatore dalle mani di Washington dopo il fallimento dei negoziati del 2014: una vittoria ottenuta dove il rivale americano aveva fallito sarebbe stato il gioiello della corona della diplomazia e dell’influenza cinese, e se Pechino avesse avuto una solida possibilità di successo l’avrebbe sfruttata.

La scelta di astenersi è dettata dalla realistica consapevolezza delle proprie capacità e della necessità di salvare la faccia. Se Pechino non può ignorare la sua storica relazione con la Palestina e – probabilmente – nutre una simpatia sincera per la causa palestinese, non può nemmeno ignorare i limiti reali alla sua influenza nella regione. Pechino non è l’unico attore di caratura internazionale coinvolto, e al contrario degli altri il suo peso è principalmente economico. Conta quindi sul successo della Belt and Road Initiative e il benessere che porterà nelle casse non solo cinesi ma anche medio-orientali per aumentare la sua influenza e consolidare la sua fama di potenza responsabile.

Se Pechino potesse influenzare effettivamente la regione lo farebbe. Il Medio Oriente è uno snodo fondamentale delle nuove Vie della Seta e la Cina non vorrebbe mai vedere il suo progetto minacciato da instabilità. Per ora però non può e adotta una strategia ispirata alle parole di Deng Xiaoping: nascondi (leggi accumula) le tue forze e aspetta il momento propizio. Tra cinquantanni, forse, Pechino avrà le forze per cambiare le sorti della regione, e allora lo farà. Fino ad allora si limiterà a tutelare lo status quo, preservando la stabilità necessaria per accrescere le proprie forze.

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