È dalla sera del 9 novembre che l’Armenia è in fermento: partiti di opposizione e società civile chiedono le dimissioni del primo ministro in carica, Nikol Pashinyan, al quale addossano la responsabilità della sconfitta nella guerra del Nagorno-Karabakh. Quella sconfitta, infatti, è stata pagata a caro prezzo dagli armeni residenti nella regione contesa, poiché una serie di villaggi sono stati ceduti all’Azerbaigian, e ha avuto gravi ripercussioni in termini di prestigio per l’intera nazione, che assisterà alla costruzione di una linea di collegamento tra Nakhchivan e Baku attraverso il territorio armeno.
Il malcontento generalizzato per la conclusione ignominiosa della guerra sta alimentando un moto di proteste duro e duraturo, che neanche lo scorrere del tempo ha diluito: nel pomeriggio dell’8 dicembre, infatti, hanno avuto luogo dei gravi disordini a Yerevan durante l’ennesima protesta organizzata contro Pashinyan.
Proseguono le proteste
All’indomani del cessate il fuoco il primo ministro ha avviato un percorso di profondo ripensamento strategico, basato su un riavvicinamento alla Russia, ma ha respinto ogni richiesta di dimissioni ed elezioni anticipate lanciata all’unanimità dai partiti di opposizione, dalla Chiesa apostolica armena e dalla società civile. L’intransigenza mostrata da Pashinyan, però, ha allungato la distanza tra governo e popolo, spingendo quest’ultimo a manifestare con più frequenza e veemenza.
Il mese di dicembre si è aperto all’insegna di una tensione persino maggiore di quella che ha caratterizzato novembre. Nel primo sabato del mese, il 5, i partiti di opposizione hanno organizzato una marcia a Yerevan, alla quale hanno partecipato oltre 20mila persone, per lanciare un ultimatum a Pashinyan: dimissioni entro martedì 8 o inizio di una disobbedienza civile a oltranza.
L’8 è arrivato e l’ultimatum è stato rifiutato, ragion per cui per le strade della capitale armena si è assistito all’inizio della rivolta preannunciata dopo che Ishkhan Saghatelyan, capo della Federazione Rivoluzionaria Armena, ha invitato il popolo in diretta televisiva a occupare le strade, congestionare il traffico e utilizzare ogni mezzo pacifico a disposizione per esercitare pressioni su Pashinyan. La disobbedienza civile alla Thoreau, però, si è materializzata solo in parte, perché per le strade di Yerevan è scoppiata una guerriglia urbana.
Il bilancio della prima giornata di disobbedienza civile è pesante: decine di feriti, 81 arresti a Yerevan e 7 ad Arafat.
La posizione della Russia
Il Cremlino, coerentemente con la propria linea politica di equidistanza, ha denunciato i tentativi dell’opposizione di strumentalizzare il malcontento per ottenere il potere e mantenuto una simultanea freddezza nei confronti del primo ministro, guidato da un’agenda filo-occidentale sino allo scoppio delle ostilità. I contatti tra Yerevan e Mosca si sono intensificati nel dopo-cessate il fuoco, principalmente per ragioni fisiologiche, ma i tentativi di Pashinyan di riscattare la propria immagine presso Vladimir Putin non hanno riscosso successo.
Il fallimento più clamoroso ed eloquente di Pashinyan è stato sicuramente l’annullamento del viaggio in programma a Mosca dal 30 novembre al 4 dicembre. L’evento era stato pianificato con cura dalla diplomazia armena per ricucire formalmente i rapporti bilaterali, danneggiati grandemente negli anni di Pashinyan e culminati nella decisione di non partecipare al 75esimo anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica. Ogni sforzo, però, si è rivelato infruttuoso e l’evento è infine naufragato contro lo scoglio inamovibile del diniego russo ad una bilaterale di alto livello.
Pashinyan, in breve, una volta a Mosca, avrebbe potuto incontrare ogni membro del governo e della squadra presidenziale, eccetto Putin. L’obiettivo della diplomazia armena, però, era precisamente una bilaterale tra i due politici, un modo per porre fine al raffreddamento iniziato con la rivoluzione di velluto del 2018.
Essendo l’opposizione armena composta da partiti che ambiscono ad una cancellazione dell’accordo di cessate il fuoco e, possibilmente, ad una ripresa delle ostilità con l’Azerbaigian, non è nell’interesse del Cremlino che avvenga un cambio politico – perlomeno, non adesso. Pashinyan, infatti, similmente ad Aleksandr Lukashenko in Bielorussia, è stato obbligato dalle circostanze a rivalutare negativamente il percorso di apertura ad Occidente e a rivolgersi nuovamente alla Russia; un evento che, almeno nel breve periodo, può essere utilizzato da quest’ultima per ripristinare il partenariato e riasserire influenza sul Paese.
Nel medio-lungo periodo, però, difficilmente il Cremlino potrebbe favorire la permanenza o la ricandidatura di Pashinyan, trattandosi di un politico che ha costruito la propria carriera facendo opposizione a Mosca – fu colui che nel 2014 riuscì a ritardare l’adesione di Yerevan all’Unione Economica Eurasiatica, poiché ritenuta dannosa per l’interesse nazionale – e che, perciò, continuerà ad essere identificato con l’inaffidabilità, il doppiogiochismo e l’Occidente.