Sembrano lontani i tempi del confronto armato tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno Karabakh, una delle vene scoperte più scoperte dello spazio postsovietico e, in esteso, dell’intero pianeta. Un confronto che si è concluso la sera del 9 novembre a Mosca, dove il presidente azerbaigiano Ilham Aliyev e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan hanno firmato un accordo di cessate il fuoco, curato nei minimi dettagli dalla diplomazia russa, il cui potenziale in termini di rappacificamento durevole è stato dispiegato gradatamente.
Superata la sensibile fase dell’immediato postguerra – con il mese di dicembre costellato di schermaglie intermittenti –, gli ex belligeranti hanno cominciato a lavorare all’implementazione effettiva dei punti-chiave dell’accordo di cessate il fuoco, come lo scambio dei prigionieri di guerra e il ripristino dei corridoi di comunicazione, riducendo progressivamente la tensione nella regione.
Sorpassato anche il grande ostacolo delle parlamentari armene – accompagnate da un prevedibile disseppellimento strumentale del vocabolario dell’odio –, che sono state vinte nuovamente dall’oramai inerme Pashinyan, la cui minacciosità è stata miniaturizzata a tempo indefinito da Mosca e Baku, il processo di pace è stato riavviato e non si è più fermato. E oggi, a distanza di otto mesi da quell’accordo di cessate il fuoco, i lavori in corso nel Nagorno Karabakh mostrano e dimostrano come e quanto la voglia di pace sia più forte (e benefica) delle brame di guerra.
Il potere della diplomazia della pace
Negli ultimi otto mesi il mondo ha assistito a qualcosa di impressionante: il Nagorno Karabakh, la polveriera dello spazio postsovietico, è divenuto un caso studio di terra rinata grazie alla diplomazia della pace. Non è dato sapere quanto durerà – sebbene la speranza è che duri, senza limiti temporali –, ma funzionalismo e realpolitik, per ora, stanno producendo effetti visibili e tangibili.
Il risultato più riguardevole è stato conseguito nella giornata del 12 giugno, quando le diplomazie armena e azerbaigiana hanno raggiunto e concretato l’accordo più significativo degli ultimi otto mesi: uno scambio. Vite umane in cambio di informazioni critiche. Baku ha liberato quindici prigionieri di guerra armeni per una mappa. Non una mappa qualunque, ma una mappa in grado di salvare vite, perché contenente informazioni utili a localizzare e neutralizzare le 97mila mine disseminate in uno dei sette distretti ex karabakhi.
97mila, una cifra enorme e che illustra con una dirompente forza esplicativa perché la questione sminamento sia stata messa al centro dell’agenda azerbaigiana per la pacificazione, elevata al rango di punto indispensabile. Un piccolo passo in direzione della costruzione della fiducia è stato fatto, anche se mancano ancora all’appello le mappe dei restanti distretti, ma ciò che realmente conta è che l’evento sia accaduto. Perché fino a poco tempo fa, cioè fino al pre-elezioni, il governo armeno accusava la controparte azerbaigiana di fare propaganda in merito alle mappe delle mine, rifiutandosi di consegnarle e tardando la bonifica dei territori, nonostante l’incontrovertibilità dei numeri: 20 morti e 85 feriti tra i militari e i civili residenti nei distretti nuovamente azerbaigiani dal dopo-cessate il fuoco ad inizio aprile.
Adesso che nel Nagorno Karabakh – il territorio più minato del pianeta – può cominciare una campagna di bonifica strutturata e al riparo da incidenti collaterali, il prossimo obiettivo delle due diplomazie sarà la continuazione della raccolta dei quei semi, impiantati la sera del 9 novembre 2020, che stanno cominciano a maturare, a diventare frutta. Una continuazione che implicherà necessariamente, pena il fallimento della normalizzazione, l’approfondimento del dialogo in materia di sminamento – con la consegna delle restanti mappe – e, soprattutto, la riapertura dell’agognato corridoio di Zangezur – turato all’epoca della prima guerra del Nagorno Karabakh e mai più sturato da allora.
Lo Zangezur, il punto di collegamento tra Nakhchivan, Armenia e Azerbaigian divenuto parete divisoria, sarà il vero banco di prova del timido riavvicinamento in corso tra le parti. È qui, invero, che dovrebbe sorgere la linea ferroviaria Baku–Nakhchivan. Se non politicizzato dalle parti in gioco, e i rischi in tal senso provengono sostanzialmente dall’Armenia – la quale vede il corridoio come una manifestazione del panturchismo sul proprio territorio –, lo Zangezur sarebbe in grado di generare ricadute benefiche la cui portata andrebbe ben al di là della dimensione puramente sudcaucasica.
Perché connettere Nakhchivan e Baku attraverso lo Zangezur equivale a creare un collegamento potenzialmente inglobabile nella già esistente Baku–Tbilisi–Kars (BTK), che, a sua volta, è inserita in una realtà infrastrutturale di gran lunga più estesa, poiché di caratura transcontinentale, collegata ai mercati russo (attraverso la Ankara–Baku–Mosca), cinese (tramite la Cina–Azerbaigian), turkestano (a mezzo del corridoio dei lapislazzuli, ma non solo) e indo-iranico (mediante il Corridoio Nord–Sud). Riaprire lo Zangezur, in breve, comporterebbe più benefici che costi e più opportunità che rischi: comporterebbe pace e stabilità, ovvero tutto ciò di cui i popoli dell’Armenia e dell’Azerbaigian hanno bisogno, dopo un trentennio di guerre e tensione permanente.