Nel giugno del 2017, il giovanissimo Mohammed bin Salman (oggi 34 anni) ha ottenuto la nomina a principe ereditario dell’Arabia Saudita ed è diventato… tutto. L’erede al trono, certo. Ma anche il ministro della Difesa (il più giovane al mondo), il presidente del Consiglio per gli affari economici, il capo della corte, il vice-custode delle sacre moschee di Mecca e Medina. L’Arabia Saudita la governa lui, anzi la domina. E il re Salman si accontenta di invecchiare in disparte, felice forse di essere ancora vivo.

Da quel giugno, un’oliatissima macchina di propaganda ha cominciato a diffondere l’immagine di un principe riformatore, teso a modernizzare il regno e ad allentare l’intreccio soffocante tra il potere assolutistico dei Saud e il radicalismo religioso dell’islam wahabita. In Rete si trovano moltissimi esempi di questi spottoni pubblicitari, con il giornalista compiacente che scodella la palla perché il principe possa andare in goal e ribadire che “l’Arabia Saudita tornerà com’era prima del 1979 (anno della rivoluzione khomeinista in Iran, nda), cioè aperta al mondo e a tutte le religioni”.

Davvero? Lasciamo stare le decine di condanne a morte, la guerra nello Yemen, i finanziamenti generosi al terrorismo islamista di matrice sunnita in tutto il mondo, il sequestro arbitrario dei beni delle famiglie in odore di dissenso e altri piccoli particolari. Davvero Mohammed bin Salman in questi due anni ha lavorato per un’Arabia Saudita più tollerante e moderna dal punto di vista religioso?

Cominciamo allora dal Consiglio dei Religiosi, l’organismo composto da 21 clerici di alto livello, scelti personalmente dal Re e stipendiati dallo Stato, che ha il compito di consigliare la Casa Reale sulle questioni religiose e di emettere editti e fatwa. I membri del Consiglio sono tutti noti per la loro tendenza a dir poco conservatrice. Alcuni, poi, sono degli estremisti dichiarati. Saleh al-Fawzan, uno dei consiglieri più ascoltati dal principe, ha dichiarato più volte che gli sciiti non sono musulmani ma miscredenti. E Saleh al-Lohaidan sostiene la seguente teoria: i responsabili dei media che trasmettono contenuti non allineati ai precetti religiosi dovrebbero essere condannati a morte come apostati.

Guarda caso, Lohaidan ha firmato diverse fatwa per “scomunicare” coloro che criticano i loro governanti, atteggiamento che, secondo il suo pensiero, giustificherebbe un’eventuale ritorsione violenta dei governanti stessi. In linea perfetta, peraltro, con le teorie di Abdulaziz al-Sheikh, gran muftì dell’Arabia Saudita, che con fatwa ed editti sostiene dal 2016 una sola idea: per un fedele musulmano è un dovere religioso “amare il proprio re, difenderlo e non insultarlo”.

Nessuno di questi “estremisti”, ovviamente, è mai stato sfiorato dal presunto riformismo di Mohammed bin-Salman. Che invece non ha perso tempo con i riformisti veri. Già nel settembre del 2015, poco tempo dopo la nomina a principe ereditario, fece arrestare dozzine di clerici moderati, tra i quali Salman-al Awda e Awad al-Qarni, loro sì campioni di un atteggiamento religioso più tollerante. In quei giorni finirono in cella anche molti scrittori, attivisti e giornalisti riformisti. In quella tornata, val la pena di ricordarlo, il giornalista Jamal Kashoggi fu cacciato da Al-Hayat, il giornale per cui lavorava come editorialista. Proprio lo stesso Kashoggi che il 2 ottobre del 2018 è stato rapito, ucciso e fatto a pezzi dagli sgherri di Mohammed bin Salman nelle cantine del consolato saudita di Istanbul.

In questi quattro anni circa 5 mila clerici sauditi sono stati arrestati oppure convocati dalla polizia e costretti a firmare un patto di fedeltà al regime. Chi non l’ha fatto è finito nei guai. Abdullah Almalki, uno specialista di studi coranici, ha dichiarato che il bene del popolo deve precedere i desideri del sovrano. E’ finito agli arresti nel settembre 2017 e poi spedito davanti a una delle corti segrete che processano, in assenza totale di testimoni e avvocati, i detenuti considerati più pericolosi. Salman Alodah, un giornalista assai noto (il suo account Twitter ha 13 milioni di follower) per le sue posizioni contro il jihad, per la parità di diritti delle donne e per il rispetto delle minoranze religiose, ha subito lo stesso destino di Almalki e rischia la pena di morte.

La realtà del regno saudita e del principe che lo domina è questa. Il resto è, appunto, propaganda.