Costruire una centrale atomica in un paese straniero vuol dire molto tanto in termini economici, quanto politici: ogni qualvolta si conclude un affare in tal senso, sul piatto vengono messi miliardi di Dollari di investimenti, anni di collaborazioni varie per la costruzione degli impianti e la formazione del personale, occasioni importanti per le aziende del paese che fornisce la tecnologia necessaria ed un miglioramento delle condizioni energetiche per la nazione che usufruisce dell’energia nucleare; ma soprattutto, chi costruisce le nuove centrali potrebbe avere un peso non indifferente all’interno dello scacchiere politico di quei paesi che accolgono l’investimento nell’uso per scopi pacifici della tecnologia nucleare. Si tratta, in parole povere, della ‘diplomazia nucleare’, quella volta cioè a dare vantaggi politici ed economici al paese che esporta nuove centrali all’estero: la Russia negli ultimi anni, tra le varie potenze mondiali, è stata la più attiva in questo specifico settore, come già fatto notare dal collega Lorenzo Vita su questa testata nei giorni scorsi. L’ultima notizia di grande rilevanza è arrivata dal Sudan: anche il paese africano, dove un abitante su tre non ha accesso all’erogazione di energia, vuole investire sul nucleare.
Il Sudan da sempre ponte tra il Medio Oriente e l’Africa più profonda
Ha una storia molto antica il Sudan, spesso intrecciata con il vicino Egitto; del resto, con il paese delle piramidi questo grande Stato africano condivide gran parte del percorso del Nilo, fiume che ha generato alcune delle più importanti civiltà mediorientali e non solo. Nel corso dei secoli, sono diversi poi i popoli che hanno messo piede in queste zone meridionali della valle del Nilo; a parte i romani, che hanno esplorato il Fezzan libico ma non si sono spinti invece verso l’attuale Sudan, altre popolazioni hanno trovato l’opportunità di floridi commerci a sud dell’attuale Egitto: sono stati, ad esempio, gli arabi a stanziarsi nel corso del settimo secolo lungo le sponde più meridionali del Nilo, il nome stesso Sudan arriva dall’arabo ‘Bidan al Sudan’ che letteralmente viene tradotto con ‘Paese degli uomini Neri’. Dall’arrivo dei primi commercianti della penisola arabica, si è avuta una lenta ma progressiva fusione tra le etnie nilotiche presenti da millenni in questo angolo di Africa e gli stessi arabi; si è dato, in tal modo, ampio impulso al processo di islamizzazione già in corso nel Nord Africa.
Ma il Sudan ha sempre attratto esploratori ed interi popoli e, prima dell’avvento degli arabi, sono sorti lungo le sponde del Nilo tre regni cristiani che avevano preso il nome di Nobatia, Makuria ed Alodia; l’intreccio tra Islam e Cristianesimo da quel momento è apparso una costante nella storia di questa regione africana: il Sudan, nel corso dei secoli, è diventato un paese diviso tra una parte settentrionale che professa la fede musulmana ed un’altra, più meridionale, che invece è sempre stata contrassegnata dalla convivenza tra cristiani ed animisti. Nel frattempo, altri popoli hanno messo gli occhi sul futuro Sudan: dagli ottomani agli inglesi, passando per le campagne d’Egitto di Napoleone di fine ‘800, le ampie risorse di questa regione hanno fatto sì che i territori stretti tra il Nilo ed il Mar Rosso potessero divenire mete ambite di regni ed imperi; non ha fatto eccezione nemmeno l’Italia, che nel 1896 ha occupato l’area di Cassala, ceduta poi agli inglesi dopo la disfatta di Adua, con il nostro esercito che ha poi tentato un’altra incursione nel Sudan dall’Etiopia durante la seconda guerra mondiale.
Il Sudan odierno e la controversa figura del presidente Omar al Bashir
La divisione tra zone a maggioranza islamiche e zone cristiane si è acuita al punto che, lungo gran parte della seconda metà del XX secolo, il paese è stato scosso da una sanguinosa guerra civile: dal 2011, la parte a maggioranza cristiana è diventata indipendente con il nome di ‘Sud Sudan’ e con Juba capitale; una conseguenza prevedibile, specie dopo la salita al potere di Omar al Bashir, il quale nel 1989 ha guidato un colpo di Stato che da allora gli ha consentito di essere stabilmente al potere. Negli anni 90 il suo governo è stato guidato dalla dottrina ideologica di Hasan al-Turabi, il quale ha ispirato la diffusione del pensiero del Fronte Islamico Nazionale, vicino alla Fratellanza Musulmana; non a caso quelli sono stati gli anni dell’introduzione della Sharia e della copertura di terroristi del calibro di Osama Bin Laden, Carlos Lo Sciacallo ed Abu Nidal.
Ma oggi Al Bashir è controverso per ben altre vicende: dopo aver allontanato al-Turabi e condannato gli attacchi dell’11 settembre 2001, il presidente sudanese è però incappato nella condanna della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità effettuati nel Darfur; la sentenza emessa nel 2009 dalla Corte è stata la prima a condannare un Capo di Stato ancora in carica, pur tuttavia la condanna non ha mai trovato esecuzione ed Al Bashir ha sempre negato ogni accusa. Oggi il suo governo sta vivendo una fase di transizione nella gestione dei rapporti con l’estero: dopo un avvicinamento ad inizio anno agli USA, i quali hanno incluso nel 2004 Khartoum nella lista degli Stati canaglia imponendo sanzioni al paese africano, adesso Al Bashir sembra avere intenzione di porre il suo paese sempre più orientato verso Mosca e Pechino; prova ne è, ad esempio, la decisione di interrompere l’alleanza nello Yemen con l’Arabia Saudita annunciata, tra le altre cose, a pochi giorni dalla visita del presidente sudanese a Sochi, dove ha incontrato Vladimir Putin.
Con la Cina poi, i rapporti sono intensi e profondi da oramai più di un decennio; il governo di Pechino è stato il primo a riprendere la commercializzazione del petrolio sudanese, oggi il paese asiatico è il principale partner commerciale del Sudan ed i legami sono destinati a vivere un’ulteriore fase di avvicinamento. Port Sudan e le nuove infrastrutture in procinto di essere costruite proprio dai cinesi, sono tappe importanti nella politica della ‘nuova via della Seta’ inaugurata da Pechino.
Il progetto della Rosatom
Ben si comprende dunque l’importanza della costruzione della centrale nucleare russa annunciata nei giorni scorsi; secondo le intenzioni di Mosca e Khartoum, il colosso russo Rosatom ha il compito di mettere in piedi una centrale in grado di sfruttare l’energia atomica nel giro dei prossimi anni: il progetto definitivo dovrebbe essere approvato entro il 2018, subito dopo si passerà alla fase operativa. Per il Sudan, oltre alle implicazioni di carattere politico, la centrale nucleare significa anche una svolta sotto un profilo prettamente energetico: due decenni di sanzioni e guerre civili, hanno prosciugato le casse del paese e messo a dura prova la tenuta dell’economia, oggi non a caso un cittadino su tre non è raggiunto dal servizio di erogazione elettrica; la centrale nucleare, oltre a far diffondere l’energia anche negli spazi più remoti del paese, permetterà di utilizzare quasi interamente il petrolio soltanto per le esportazioni in modo, di fatto, da poter incrementare le entrare derivanti dall’oro nero. Il Sudan, in poche parole, punta a riconfermarsi nel ruolo che la storia gli attribuisce da secoli: essere un vero e proprio ponte tra il medio oriente e l’Africa più profonda, con cinesi e russi pronti a sfruttare l’occasione.