Il vento del Golfo potrebbe giungere fino ad Islamabad. La lista dei Paesi che stanno normalizzando o che hanno intenzione di normalizzare i rapporti con Israele potrebbe crescere nel prossimo futuro: il Pakistan è uno di questi. Relazioni commerciali, sicurezza e difesa sono lo sprone a questi nuovi accordi che stanno ridisegnando la geopolitica mondiale.

Nemici o semplici-non amici?

Nazioni giovani, dalla forte connotazione religiosa, figlie tumultuose della primissima stagione della decolonizzazione, Pakistan e Israele non hanno mai avuto relazioni lineari. L’astio fra Islamabad e Tel Aviv nacque già nel 1948, quando il governo israeliano sospettava un’alleanza occulta tra le forze pakistane e quelle palestinesi. Un’idiosincrasia che aumentò la sua forza sia nella Guerra dei Sei Giorni che in quella dello Yom Kippur che, tra l’altro, sancì un accordo tra l’Olp e il governo pakistano, che prevedeva l’addestramento dei palestinesi nelle file delle forze armate pakistane. Nel corso degli anni,il rapporto è rimasto intricato e si è aggravato con nuove problematiche legate alla rivalità India-Pakistan e all’escalation nucleare: la nemesi delle tensioni e degli odii reciproci è tutta condensata in quelle due righe stampate che ancora oggi figurano sui passaporti pakistani “questo passaporto è valido per tutti i paesi del Mondo tranne Israele”. Un ulteriore minimo storico si raggiunse con l’omicidio del giornalista Daniel Pearl che si era recato in Pakistan nel 2002 per indagare sui rapporti tra al-Qaeda e l’intelligence pakistana.

Eppure, esistono prove incontrovertibili che testimoniano come le due nazioni trattino a livello di servizi segreti, almeno dagli anni Ottanta in poi. Quando il generale Pervez Musharraf prese il potere in Pakistan,con un colpo di stato militare dell’ottobre 1999,  si affrettò a placare Israele sulla questione nucleare, ma annunciò anche che non ci sarebbero stati progressi nelle loro relazioni. Sei anni più tardi, nel settembre del 2005, in quel di Istanbul si tenne lo storico incontro tra l’allora ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom e il suo omologo pakistano Khurshid Kasuri, che galvanizzò la stampa di entrambe le parti. Subito dopo, durante una visita negli Stati Uniti, Musharraf accettò di essere l’ospite d’onore a una cena del Congresso ebraico americano tenutasi a New York pur continuando a ribadire il proprio appoggio alla nascita di uno Stato palestinese.

La linea dura di Islamabad e l’era Khan

Le ragioni del no di Islamabad alla pace (formale) con Israele sono essenzialmente due: la prima è legata alla storica solidarietà religiosa con i paesi arabo-musulmani, che potrebbe ricacciare il Pakistan in una condizione di isolamento che la nazione non può permettersi, soprattutto per via della questione kashmira; la seconda è legata al potenziale di ricatto esercitato da parte dei gruppi islamici radicali in tutto il mondo musulmano,ma soprattutto in Pakistan: ne è un esempio il Jaish-e-Mohammad, formazione terrorista islamista con sede in Pakistan ed attiva in Kashmir. Il gruppo opera con la sponsorizzazione della Inter-Services Intelligence pakistana e sarebbe responsabile, inoltre, proprio dell’omicidio Pearl.

I leader politici e militari del Pakistan si sono sempre sforzati di andare d’accordo con il clero radicale perché, fin dai tempi di Mohammad Ali Jinnah, padre fondatore della nazione, la fede è stato il collante attorno al quale costruire un’identità nazionale. L’arrivo dell’istrionico Imran Khan alla guida del Pakistan era stato salutato in Israele come una possibile svolta nelle relazioni tra i due Paesi. Tra l’altro, proprio Khan stesso è stato spesso vittima di teorie del complotto antisemite poiché nel 1995 aveva sposato una nota esponente del jet set britannico, Jemima Goldsmith, di origini ebraiche. I critici pakistani di Khan hanno a lungo sfruttato quel matrimonio per minare la sua credibilità politica interna sciorinando il consueto refrain antisemita di un presunto “complotto ebraico”. Khan respinse fermamente questa campagna d’odio, dettaglio che a Tel Aviv venne salutato molto positivamente: peccato che l’ex campione di cricket, invece di premere sulla matrice antisemita delle accuse, si affrettò a dimostrare le origini cristiane della sua prima consorte, contribuendo ad intensificare le acredini con Israele. Poi, venne il tempo di sconfessare il suo passato da atleta e tombeur de femmes, identificandosi nella tradizione islamica ultraortodossa: una strategia ben precisa per strizzare l’occhio al mondo musulmano, pur coltivando importanti legami con l’Occidente.

La possibile svolta

Gli ultimi dieci anni, tuttavia, restano pregni di novità e deboli segnali di disgelo. Nel 2009, il capo dell’agenzia di spionaggio pakistana contattò i funzionari israeliani per avvertire di potenziali attacchi contro obiettivi israeliani in India. Ancora, nel 2011, una fuga di notizie parve confermare che Israele avesse esportato tecnologia militare in Pakistan. Gli israeliani, tuttavia, sembrano aperti a stabilire relazioni più solide. A Karachi, tre anni fa, il primo ministro Benjamin Netanyahu evidenziò come il rapporto di Israele con l’India fosse in qualche modo una minaccia per il Pakistan. “Non siamo nemici del Pakistan e nemmeno il Pakistan dovrebbe essere nostro nemico”, tuonò ai giornalisti.

Dal canto suo, Khan ha fondato tutta la sua parabola politica, da parvenu a leader carismatico, sulla retorica islamista ed ha storicamente perseguito la strategia del boicottaggio dello Stato ebraico da parte del mondo musulmano. Tuttavia, come ha sostenuto il diplomatico di carriera israeliano Moshe Yegar nel suo Pakistan and Israel (2007), solo un progresso significativo nelle relazioni tra Israele e gli stati arabi potrebbe portare a un cambiamento nella posizione del Pakistan. Oggi, sebbene queste normalizzazioni a catena appaiano come una grande alleanza anti-sciiti più che un reale disgelo, la precondizione profetizzata da Yegar si sta, appunto, verificando. In un mondo in fermento, segnato dalla svolta operata dagli Emirati e dall’avanzata indiana nel continente asiatico, Islamabad ha bisogno di reti forti per evitare l’isolamento. La normalizzazione con Israele offrirebbe una duplice opportunità: l’adeguamento all’atteggiamento mainstream delle potenze (islamiche) del Golfo ed una rete sicura di relazioni con un gigante come Israele, porta d’accesso (quasi diretta) a Washington DC, antico alleato perduto per strada.

 

 

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