Il tema delle disuguaglianze è centrale, negli Stati Uniti contemporanei: economisti di primo spessore denunciano da anni i potenziali rischi che le crescenti disparità interne al Paese in tema di reddito, ricchezza, mobilità sociale e accesso ai servizi possono porre alla tenuta del sistema politico e sociale statunitense. Un grande studioso come Joseph Stiglitz ha dedicato al tema due studi fondamentali, Il prezzo della disuguaglianza (2013) e La grande frattura (2016), nei quali viene delineata la distribuzione delle disuguaglianze all’interno del continente americano e la traiettoria seguita dalle diverse “faglie” che attraversano la società sotto il profilo etnico, statale, generazionale e via dicendo.
Tuttavia, bisognava aspettare la presidenza Trump affinché le Nazioni Unite arrivassero a redarguire gli Stati Uniti per i livelli di disparità sociale ed economica interni. Come riportato dal Guardian, infatti, il referente delle Nazioni Unite per povertà estrema e diritti umani, l’accademico australiano stanziato a New York Philip Alston, ha compilato un rapporto sulle disuguaglianze negli Stati Uniti che accusa direttamente il presidente per il ruolo giocato dalle sue proposte legislative nell’esacerbazione delle fratture sociali interne.
Certamente, la rivoluzionaria riforma fiscale firmata dal presidente, in dirittura d’arrivo al Senato, e i tentativi di smantellamento dell’Obamacare portano con sé delle importanti implicazioni sulle disuguaglianze interne agli Usa: in particolare, la riforma fiscale appare costruita ad uso e consumo dei cittadini di reddito superiore, e potrebbe portare a un vuoto erariale da 1,5 trilioni di dollari nel prossimo decennio che, inevitabilmente, si ripercuoterebbe sul welfare ai cittadini più bisognosi.
Tuttavia, è superficiale accusare Trump dell’enorme livello di disuguaglianze interno al Paese: il tema, negli Stati Uniti, è di primaria importanza da almeno trent’anni. Fu a partire dagli Anni Ottanta, infatti, che le disuguaglianze di ricchezza e reddito iniziarono a crescere inesorabilmente in terra statunitense.
L’era Reagan: genesi delle disuguaglianze negli Stati Uniti
L’arrivo alla Casa Bianca di Ronald Reagan sancì, nel 1981, l’inizio dell’egemonia dell’ideologia neoliberista sulla politica economica americana. Ispirati a tale ideologia furono l’Economic Recovery Tax Act (ERTA) entrato in vigore il 13 agosto 1981 e il Tax Reform Act, che contribuirono, nel periodo 1980-1990, a un aumento pari al 50% del reddito medio dell’1% più ricco della popolazione e a una crescita modesta del blocco compreso tra l’ottantesimo e il ventesimo percentile (comprendente la stragrande maggioranza della middle class statunitense).
La deregulation del mercato del lavoro dell’era Reagan preannunciò la grande stagione di riforme finanziarie portate avanti da Bill Clinton nel pieno degli Anni Novanta: se nel corso dell’era Clinton gli Stati Uniti conobbero un aumento del reddito medio e un calo della percentuale di persone in povertà assoluta, al tempo stesso affrontarono il consolidamento della superclass egemone nella ripartizione di reddito e ricchezze a seguito del netto superamento dei guadagni da capitale sui redditi da lavoro.
Come riportato da William McBride sul sito della Tax Foundation, infatti, a Bill Clinton sono imputabili aumenti del 12% del livello di disuguaglianza reddituale, dato che l’indice di Gini passò tra il 1993 e il 1999 dal valore di 0,498 a quello di 0,555: gli Stati Uniti erano ampiamente diseguali ben prima dell’era Trump.
Da Trump a Sanders, l’urto delle disuguaglianze sulla politica americana
La frattura interna agli States ha, di fatto, contribuito notevolmente all’elezione di Donald J. Trump alla presidenza degli Stati Uniti, dato che la piattaforma programmatica del tycoon newyorkese è risultata vincente soprattutto negli Stati decisivi della Rust Belt, sconvolti dalla deindustrializzazione, dalla perdita di posti di lavoro e dall’urto con la globalizzazione neoliberista.
Elisabetta Grande ha descritto nel suo magistrale saggio sulle disuguaglianze economiche negli Stati Uniti, Guai ai poveri, come “la povertà estrema è negli Stati Uniti parte integrante della fisionomia della società e addirittura del paesaggio urbano”, dato che si coglie eloquentemente guardando alle città spopolate di Stati come Ohio e Pennsylvania, i cui cittadini hanno covato a lungo una rabbia diventata, per citare John Steinbeck, furore nel voto 2016.
Il Partito democratico, nel 2016, ha perso proprio perché Hillary Clinton non ha saputo percepire il grado di divisione interna dell’America e ha preferito proporre una classica agenda politica liberal, mentre oggigiorno Bernie Sanders propone azioni dirette a contrastare con decisione l’insorgenza di ulteriori disuguaglianze e una lunga inerzia che ha lasciato al Partito Repubblicano il ruolo di portavoce dell’America profonda.
L’America non è divenuta diseguale nell’era Trump, ma rischia di arrivare alla fine del mandato dell’attuale amministrazione ancora più fratturata al suo interno: il fatto che il tema delle disuguaglianze risulti tanto centrale nell’attuale discorso politico, in ogni caso, fa sperare che in futuro il modello di sviluppo del Paese possa finalmente ritornare inclusivo, garantendo il ritorno degli Stati Uniti al ruolo, da tempo perduto, di “terra delle opportunità”.