Per due anni l’esercito del Sudan ha presieduto il governo di transizione dopo il colpo di Stato del 2021. Lo scorso dicembre, i militari hanno assicurato che si apprestano a cedere il potere ad un governo civile, ma l’élite in mimetica rispecchia la frammentazione del resto del Paese. In particolare, le cariche più alte del governo di Khartum sono sedotte dalle promesse di due campi opposti.

L’accordo osteggiato

L’assistenza diplomatica dalla missione Onu in Sudan, dell’Unione Africana e dell’organizzazione di integrazione regionale Igad sembra aver sbloccato l’impasse politico tra i partiti civili e l’esercito sudanese. Le libere elezioni previste per il 2023 hanno dovuto quindi cedere il passo all’accordo quadro, firmato a dicembre 2022: un piano biennale per l’insediamento di un governo civile e la riattivazione del percorso di democratizzazione inaugurato dalla rivoluzione del 2019 che aveva rovesciato la dittatura trentennale di Omar Hassan al-Bashir.

La firma tuttavia non significa la ricomposizione delle faglie sociali, e l’accordo è stato osteggiato da più parti. Primi tra tutti i comitati di resistenza popolari, che chiudono completamente all’ennesimo compromesso con i militari, ritenuti responsabili della crisi politica ed economica del Paese. Nigrizia riferisce che dall’interno si oppongono anche i movimenti armati del Darfur, parte della giunta militare al potere; l’accordo prevede per il Sudan un esercito “unico, nazionale e professionale” che significherebbe un’omologazione delle formazioni armate del Sud-Ovest con il resto del Paese.

Dissentono anche l’influente partito comunista e ampi segmenti della società civile, scontenti perché il documento non prevede avanzamenti significativi per lo stallo sudanese: temi cruciali come la giustizia transitiva, la responsabilità democratica e una riforma nell’ambito della sicurezza sono stati abilmente elusi per permettere l’approvazione del testo. Di conseguenza, l’accordo non offre una strategia per rompere il circolo vizioso della regressione democratica, della violenza e dell’interventismo militare.  

Di contro il presidente del Consiglio sovrano di transizione, il Generale Abdel Fattah al-Burhan, ha più volte accusato la parte civile di essere responsabile della paralisi sia del dialogo nazionale che della formazione del governo di transizione a causa delle sue divisioni interne.

Dei tanti accordi tentati per spianare la strada della democrazia a Khartum, quello di dicembre è l’unico che ha raggiunto la firma: il motivo è che chi ci guadagna da questo patto non sono gli attivisti che si sono spesi per rovesciare la dittatura, ma i militari stessi, che mantengono ampi margini d’influenza oltre che di competenza nello sviluppo politico dello Stato. È per questo che chi vuole intrattenere rapporti d’interesse col Sudan punta sull’alleanza con i militari, seducendone le élites. La Russia di Putin lo sa bene, e per questo già all’indomani colpo di stato del 2019 aveva stretto i legami con la giunta sudanese per predisporre una base navale sul Mar Rosso e assicurare alla Marina russa l’accesso al Mediterraneo ma anche al Golfo Persico e all’Oceano Indiano.

I due alfieri dell’esercito sudanese

La frammentazione dell’esercito è una derivazione del complesso apparato di sicurezza della dittatura. L’esercito ufficiale e le varie unità di intelligence statali fanno capo al presidente al-Burhan, mentre le Rapid Support Forces (RSF) in cui sono confluite le milizie Janjaweed sono guidate dal vice presidente del Consiglio Sovrano Mohamed Hamndan Dagalo, detto “Hemeti“. Costretti dalle contingenze a collaborare in un fronte unito per l’interesse dell’esercito, le prospettive di lungo termine li vedono battersi per il predominio sulle forze armate. Armandosi di alleanze potenti, i due alfieri dell’esercito hanno tenuto molteplici incontri diplomatici, riconfermando vecchie amicizie e inaugurando insospettabili avvicinamenti, e hanno delineato due blocchi radicalmente opposti che si contendono il controllo di Khartum e delle sue potenzialità, oltre che delle sue risorse minerarie e idriche.

Il vice presidente Hemeti, molto popolare nella regione del Darfur dove gestisce un business di estrazione aurifera e partecipa alla direzione di un fondo d’investimento, gode dell’appoggio di Arabia Saudita e Emirati Arabi, guadagnato con l’invio dei suoi mercenari Rsf nella guerra in Yemen. Facendo collaborare i combattenti Rsf con il gruppo Wagner contro i ribelli nella Repubblica Centrafricana, Hemeti si è avvicinato alla Russia arrivando a sostenere il diritto di Mosca di “difendere il proprio popolo”. Di ritorno da una visita al Cremlino all’inizio della guerra in Ucraina, Hemeti ha riportato sul tavolo del governo la proposta della base navale russa a Port Sudan. La recente visita di Lavrov a Khartum ha rinnovato l’interesse di Mosca sulla questione.

Il capo dello schieramento opposto non gode dello stesso favore popolare, ma ha dalla sua la dimestichezza diplomatica di un politico di lunga carriera, più che di un generale dell’esercito. Al-Burhan ha infatti dimostrato capacità da sofista rimaneggiando intese e antagonismi. Un esempio lampante è il rapporto con la componente islamista del Paese, erede dell’attivismo politico del Fronte Islamico Nazionale di Hassan al-Turabi. Mentre un anno fa, a corto di sostegno interno, aveva promosso un riavvicinamento al movimento islamista assegnando incarichi di governo a sostenitori dell’Islam politico (con gran clamore degli attivisti che si erano battuti per uno stato democratico e laico), già a novembre scorso li redarguiva a più riprese, prima per un presunto tentativo di colpo di stato e poi per aver provato ad infiltrarsi nell’esercito.

Abdel Fattah al-Burhan parla all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 22 settembre 2022. Foto: EPA/Jason Szenes

I generali si spalleggiano contro gli islamisti e non solo

L’allontanamento degli islamisti è presto spiegato volgendo lo sguardo a nord. Da tempo infatti al-Burhan ha rafforzato lo storico legame con il corrispettivo al Cairo, Abdel Fattah al-Sisi, con il quale condivide molti interessi strategici oltre che il nome.

La chiusura all’Islam politico e all’ascesa di un ramo cadetto dei Fratelli Musulmani in Sudan si immette in una tradizione di allineamento all’Egitto di lunga data. Già nel marzo 2021, l’esercito sudanese e quello egiziano hanno formalizzato il loro coordinamento con un accordo di cooperazione militare che include la fornitura di armi per monitorare la regione occidentale del Paese, dato l’embargo Onu del 2005 sulle armi al Darfur. La vicinanza dei due generali rappresenta un elemento chiave per l’Egitto che trova nel Sudan un alleato chiave contro l’Etiopia nella disputa della Grande Diga della Rinascita, e per l’esercito sudanese che legittima la propria permanenza al potere con l’esempio egiziano.

Il superamento dei Tre No di Khartum

Per decenni il Sudan ha rappresentato uno dei Paesi più ostili a Israele, combattendolo in prima linea nel 1948, equipaggiando Hamas e altri gruppi armati Palestinesi per anni sotto il regime di al-Bashir, e venendo più volte bombardato per questo. Proprio a Khartum nel 1967 veniva passata dalla Lega Araba la risoluzione dei Tre No: “Nessuna pace con Israele, nessun riconoscimento di Israele, nessun negoziato con esso”.

In seguito alla deposizione del dittatore, nel 2020 il Generale al-Burhan ha incontrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel primo incontro diplomatico tra i due Paesi in assoluto. Pochi mesi dopo venivano siglati gli Accordi di Abramo negoziati da Donald Trump, a cui Khartum ha aderito nel gennaio 2021. L’iniziativa ha permesso la rimozione del Sudan dalla lista americana degli Stati che sponsorizzano il terrorismo, favorendo la reintegrazione del Paese nel sistema finanziario internazionale dopo anni di isolamento.

È di questo mese la visita del ministro degli Esteri Eli Cohen a Khartum – programmata col consenso di Washington – in cui sono state trattate prospettive di cooperazione su tematiche quali sicurezza, energia e risorse idriche e si è discussa la firma di un trattato di pace tra i due Paesi (appena il governo civile sarà in carica). In seguito alla visita di Cohen, il capo dell’intelligence sudanese è volato a Washington per incontrare il suo corrispettivo statunitense. Interessante notare che il vice presidente Hemeti ha comunicato al quotidiano sudanese Bajnews di essere stato lasciato all’oscuro di questi incontri.

L’interesse israeliano per il Sudan si collega al piano di Tel Aviv di predisporre una linea aerea diretta per il Sudamerica, per cui necessita dell’accesso allo spazio aereo sudanese. Middle East Eye riferisce che Netanyahu ha già concluso accordi simili con il Ciad ed è in trattativa con il Mali e la Mauritania. Da parte di Khartum, disporre della tecnologia israeliana (in particolare per la desalinizzazione e l’irrigazione) determinerebbe un vantaggio significativo nel campo dell’agricoltura.

Linea indiretta Khartum – Washington

La normalizzazione e l’accelerazione dei rapporti con Israele da un lato e l’attenta gestione dei movimenti islamisti dall’altro sono catalizzatori della relazione con gli Stati Uniti. Così com’è stato approvato, il testo dell’accordo quadro di dicembre lascia i poteri dell’esercito e delle milizie sudanesi quasi intatti, e il governo civile di cui pur si parla, in base alle circostanze attuali sembra possa essere un governo civile dominato da Burhan.

Il Generale al-Burhan ha dimostrato di essere una perno fondamentale nell’asse di sicurezza che va da Washington, a Tel Aviv, al Cairo. Mentre le proteste dei dissidenti nella capitale sudanese rimangono inascoltate, la partita sembra aperta tra Burhan ed Hemeti come tra Washington e Mosca.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.