Mario Draghi Angela Merkel si sono trovati per due volte in poche settimane su fronti opposti nella partita vaccinale europea: dapprima, a fine febbraio, il premier italiano ha stoppato la mossa della Cancelliera tedesca e di Emmanuel Macron, che volevano inviare 13 milioni di dosi dell’Unione Europea in Africa; più recentemente, Draghi e Macron hanno invece fatto asse ritenendo precipitosa la mossa della Germania di sospendere per motivi cautelari AstraZeneca, seguita a cascata da tutta Europa.

Le dinamiche politiche europee però, di questi tempi, evolvono velocemente, spinte anche dalla necessità pragmatica di contrastare con l’arma vaccinale l’incedere della pandemia. L’Italia sta mettendo a terra il piano studiato dal generale Figliuolo per accelerare la campagna vaccinale, in Germania la Cancelliera è sommersa di critiche e pressioni per una svolta analoga. Roma e Berlino guardano dunque con sempre maggiore interesse a un altro vaccino, il russo Sputnik, che con pragmatismo entra con crescente insistenza nei calcoli politici dei due governi.

Le aperture parallele a Sputnik

La Merkel, sottoposta alla pressione dei governatori regionali, soprattutto dell’Est, che chiedono di aumentare l’arnamentario di vaccini a disposizione, alle prese con i tempi lunghi che richiederà l’entrata a regime del maxi-polo di Marburgo per la produzione delle dosi e in una fase di acuta incertezza politica, recentemente dopo essersi confrontata con i Lander non ha escluso l’ipotesi di andare in solitaria su Sputnik, dichiarando: “La Germania utilizza tutti i vaccini autorizzati dall’Ema. Io preferirei un’ordinazione europea. Se questa non dovesse arrivare, cosa di cui non ho indicazioni, dovremmo percorrere una via tedesca, questo sarebbe possibile. E lo faremmo anche”.

Parole molto simili a quelle pronunciate da Mario Draghi nella prima conferenza stampa, a seguito della presentazione del Decreto Sostegni, nella serata del 19 marzo: “Se l’Ue prosegue su Sputnik bene, sennò si procedere in un altro modo. Con pragmatismo si deve cercare il coordinamento europeo, se non si riesce a mantenerlo si possono vedere altre strade”.

Perché Sputnik conviene

Interessante eterogenesi dei fini: partendo da una posizione di distanza, Merkel e Draghi individuano in Sputnik un possibile game-changer della campagna vaccinale. Questo per un’ampia serie di ragioni.

In primo luogo, la necessità di mettere a sistema la crescente capacità produttiva che l’Unione Europea e i Paesi membri vogliono mobilitare. L’Italia, in particolare, è stata già indicata dal Russian Direct Investment Fund (Rdif) che finanzia Sputnik come uno dei Paesi chiave per aumentare la produzione del siero nel prossimo futuro; Thierry Breton e Giancarlo Giorgetti hanno dialogato da tempo sul tema e anche un uomo attento a fiutare gli umori del Cremlino come il banchiere Antonio Fallico, di recente, ha aperto alla possibilità di una crescente produzione di Sputnik nella Penisola. Non basato sull’Rna messaggero come Pfizer, Sputnik è un vaccino ad adenovirus che va incontro alle capacità produttive nazionali. Per la Germania, invece, si tratterebbe di rafforzare la saldatura economica con la Russia che in questi anni si sta sostanziando in una partnership a tutto campo.

In secondo luogo, per la volontà comune che, di fatto, Germania e Italia hanno di dare una scossa alle strategie europee. La Merkel ha pagato lo scotto di aver condizionato l’intera Europa in maniera fuorviante su AstraZeneca, mentre Draghi chiede un cambio di passo alla Commissione: entrambi hanno dunque l’interesse a vedere un’accelerazione nella responsabilità di una Commissione von der Leyen a lungo titubante nell’assumersi impegni strategici sul fronte dell’autorizzazione al vaccino russo. Il pungolo di una possibile via autonoma nazionale da parte di Berlino e Roma può fungere da stimolo.

Uno schiaffo agli Usa? Niente affatto

Terzo punto è la questione del rapporto con la strategia vaccinale degli Stati Uniti. Anche dopo aver doppiato in anticipo la soglia dei cento milioni di vaccinati, nota l’Huffington Post, “Washington non rinuncia al suo protezionismo sui vaccini: Biden ha detto di volerli esportare verso Messico e Canada, territori considerati di diretta influenza statunitense. Ma non in Europa”.

Questo ha spinto Angela Merkel a non rinnegare l’asse economico con Vladimir Putinanche dopo la buriana scoppiata tra Washington e Mosca negli ultimi giorni, ma ha reso meno titubante sul fronte Sputnik anche il governo Draghi.

Inizialmente, il premier ha provato a smarcarsi assieme alla Farnesina e alla Regione Lombardia dall’accordo siglato dal Rdif e dalla società svizzera Adienne Pharma & Biotech, che ha uno stabilimento a Caponago in Brianza, per produrre il siero russo presso Mosca. Troppo forti le pressioni in tal senso di Washington, che ha imposto sanzioni a diversi laboratori coinvolti nella ricerca su Sputnik, ancora incerte le linee di comunicazione tra Mosca e Roma dopo la nascita del nuovo governo, in continua evoluzione le dinamiche della pandemia.

Poi è subentrato un doveroso pragmatismo: il governo Draghi non è sospettabile di scarsa adesione ai principi-guida dell’atlantismo, nel Recovery Fund “tecnologico” ha imposto una forte discontinuità con il governo Conte II e di fatto ridotto le possibilità di inserimento cinesi, a suo modo rappresenta per Washington un interlocutore di maggiore affidabilità rispetto a Merkel e Macron, ma alleanza con gli Usa non vuol dire necessariamente appiattimento su ogni dossier. Il “sovranismo” vaccinale degli Usa dà, in un certo senso, libertà d’azione anche all’Italia sul fronte Sputnik, vaccino che peraltro è prodotto in Russia sfruttando la tecnologia di infilamento italiana e i macchinari del Gruppo Marchesini, azienda parmense leader della “packaging valley” emiliana. Segno di una sinergia industriale che l’Italia avrebbe tutto l’interesse a replicare sul suolo nazionale.

Orban aveva visto giusto?

La questione vaccinale è fortemente “politica”, questo è chiaro da tempo, ma la politica è per definizione l’arte del compromesso. Le convergenze parallele di Draghi e Merkel li hanno portati, dopo diversi screzi, alla comune scelta di non escludere dal calcolo della campagna vaccinale il siero russo. E questa è a suo modo una decisione dal grande peso politico. Su cui è possibile pensare alla strutturazione di un dialogo a livello comunitario. E che porta, col senno di poi, a definire tutt’altro che irresponsabile la scelta di chi, come il premier ungherese Viktor Orban, si era smarcato in anticipo dalla demonizzazione più “geopolitica” che scientifica del siero russo. Perché preservare la vita dei propri cittadini deve essere, per ogni governo, la priorità assoluta in questa fase pandemica. Indipendentemente dalla bandiera dei vaccini che si sceglie di adottare.