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“Il surplus commerciale della Germania si sta rivelando un problema crescente, non solo con gli Stati Uniti ma anche con altri partner commerciali, e anche all’interno dell’ Unione europea. Il surplus sta diventando tossico e anche in Germania molti ormai sostengono che dobbiamo fare qualcosa al riguardo, allo scopo di abbassarlo. Risulta essere una passività piuttosto che una risorsa”. Così nel luglio scorso si esprimeva eloquentemente ai microfoni della Cnbc Gabriel Felbermayr, direttore del Centro per l’ economia internazionale presso l’Ifo, principale think tank economico tedesco.

Nel 2017, per la prima volta dal 2009, la Germania ha conosciuto una contrazione del suo surplus commerciale, stabilizzatosi comunque alla cifra considerevole di 300,9 miliardi di dollari. Un valore comunque pari all’8% del Pil (contro l’8,5% del 2016) costruito con politiche economiche che hanno contribuito a frenare l’espansione dell’economia dell’Unione Europea a vantaggio delle rendite di posizione delle esportazioni dell’industria tedesca.

Economisti di spessore come Sergio Cesaratto hanno fatto notare come lo stato delle partite correnti con l’estero della Germania rappresenti uno squilibrio che viola le regole comunitarie: esse prevedono infatti che i surplus commerciali debbano stabilizzarsi a valori pari o inferiori al 6% del Pil. Come scrive lo stesso Cesaratto in Chi non rispetta le regole, la Germania ha costruito l’attuale condizione dell’Eurozona attraverso il suo “mercantilismo monetario“. La Germania e gli altri Paesi in forte surplus commerciale, come l’Olanda, “hanno approfittato dell’indebitamento e delle importazioni dai Paesi periferici per accrescere le proprie esportazioni e […] ora violano la regola del gioco fondamentale di aiutare il riequilibrio all’interno dell’unione monetaria espandendo la propria domanda interna”. 

In altre parole la Germania, lungi dall’essere la “locomotiva d’Europa”, ha in realtà contribuito a frenare il resto del continente esportando i vantaggi competitivi garantiti da una crescita dei livelli salariali molto inferiori a quella della produttività, alla compressione della domanda interna a favore della produzione export-led e al possesso di un’influenza determinante sulla politica monetaria europea che più volte ha permesso a Berlino di determinare le linee di condotta dell’Unione.

Ora tale modello mostra tutte le sue lacune. La cancelleria tramontante di Angela Merkel si è trovata costretta a porre in essere aumenti nelle dotazioni del welfare e rafforzamenti del sistema previdenziale per venire incontro a una situazione di disagio caratterizzata da un incremento notevole delle disuguaglianze e da un crollo verticale di consensi per i partiti di governo della sua coalizione. E questo nel momento in cui la linea dell’austerità perorata a lungo dalla Germania viene sfidata in tutto il continente. Basti pensare alla Spagna, considerata nell’era Rajoy un vero e proprio “protettorato” di Berlino sotto il profilo dell’adesione alla sua linea politica.

Ora, scrive Carlo Tarallo su La Verità, il premier socialista Sanchez ha annunciato che “dal prossimo gennaio, gli stipendi minimi aumenteranno del 22,3%: la soglia di 637 euro mensili passerà a 900 (su 14 pagamenti) o 1.050 euro su 12 mesi. È il più sostanzioso aumento del salario minimo in Spagna dal 1977. L’ aumento a 900 euro riguarderà almeno 1.327.054 lavoratori. Il provvedimento sarà approvato dal governo nel consiglio dei ministri che si riunirà il 21 dicembre a Barcellona” e avrà il sostegno della sinistra di Podemos. La Germania è in grave ritardo, sul fronte del riequilibrio della situazione economica interna, e questo anche a causa di politiche che in passato hanno sacrificato il benessere dei cittadini sull’altare del surplus commerciale.

Surplus finito anche nell’occhio del ciclone dopo l’ascesa di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, che ha rafforzato, ma non creato dal nulla, una rivalità commerciale tra Washington e Berlino segnata nel corso dell’amministrazione Obama dallo scoppio del “Dieselgate” che ha coinvolto Volkswagen. Trump ha più volte attaccato la Germania verbalmente e impostato politiche protezionistiche verso le merci europee con il chiaro intento di colpire Berlino. Al tempo stesso, gli apparati statunitensi hanno messo nel mirino Deutsche Bank, l’istituto divenuto il grande malato del sistema finanziario mondiale, e la giurisprudenza degli Usa ha condannato Monsanto per il caso glifosato solo dopo il suo acquisto da parte della tedesca Bayer.

Il surplus commerciale, come sottolineato dall’esperto dell’Ifo, ha reso la Germania vulnerabile nella “guerra dei dazi”, che rischia di intaccarne il principale vantaggio competitivo. Anche in terra tedesca emerge con decisione la consapevolezza dell’insostenibilità dell’attuale architettura dell’Europa germanocentrica, eccessivamente sbilanciata nella ripartizione dei doveri e dei privilegi. Un’architettura che ha reso l’Unione facile obiettivo degli avversari della Germania e che i leader di Berlino non possono più permettersi di difendere in maniera incondizionata. Pena conseguenze potenzialmente catastrofiche.

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