Gli scontri avvenuti all’alba del 5 e 6 aprile nella moschea di al-Qibli, l’edificio dalla cupola argentata situato nel complesso della grande moschea di al-Aqsa a Gerusalemme est, hanno colto di sorpresa i fedeli che stavano pregando all’interno del luogo sacro, ma fanno parte di un triste rituale che tende a ripetersi da anni. Quest’anno però, potrebbe prendere una piega nuova.

Scontri ciclici

Il cerimoniale delle ultime primavere prevede che con l’avvicinarsi della Pesach – la settimana in cui gli ebrei celebrano l’esodo del loro popolo dall’Egitto – un gruppo di israeliani ultra-ortodossi riproponga di sacrificare un agnello sul Monte del Tempio (“Spianata delle Moschee” per i musulmani) in nome della tradizione biblica. Nonostante lo svolgimento di questa pratica nella zona sacra sia proibito dalla legge israeliana proprio per prevenire tensioni con la popolazione palestinese, che lo percepirebbe come un affronto, non è una novità che i fedeli più radicali cerchino di introdurre di nascosto o forzatamente degli agnelli sul Monte per sgozzarli alla vigilia della Pesach.

Quest’anno gli attivisti del gruppo Returning to the Mount – “ritornare al Monte”, il nome è esplicativo degli obiettivi – hanno rivolto appelli pubblici alla popolazione e al governo israeliano per poter eseguire il sacrificio pasquale nel luogo sacro, e hanno diffuso dei volantini nel centro di Gerusalemme nei quali offrono fino a 20mila shekel (oltre 5mila euro) a chiunque riesca a portare a termine l’impresa e un premio di 2500 shekel in caso di tentativo finito in arresto.

La reazione del governo non è stata di totale intransigenza. Pronunciandosi sulle richieste del gruppo Returning to the Mount, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir ha negato la possibilità di violare la legge eseguendo il sacrificio rituale nel sito religioso, ma ha anche affermato che è un obbligo per gli ebrei visitare il luogo dove un tempo sorgevano i due principali templi sacri ebraici, pur sapendo che nel mese sacro del Ramadan centinaia di migliaia di pellegrini musulmani saliranno alla moschea al Aqsa. “Il Monte del Tempio non è solo per gli arabi, è il luogo più importante per lo Stato d’Israele. Non ci arrenderemo”, ha detto Ben Gvir, che da tempo persevera nella promozione dei diritti degli ebrei presso il sito. Attualmente, i musulmani hanno il permesso di entrare e pregare con alcune restrizioni, mentre gli ebrei possono fare visita solo durante alcune fasce orarie. Hanno accesso la luogo da una sola entrata e camminano su un tracciato prestabilito sempre accompagnati da forze di polizia israeliane.

Come l’anno scorso e l’anno prima, la popolazione palestinese anche le scorse sere si è barricata dentro ai luoghi di culto durante la notte per praticare l’Itikaf, il ritiro spirituale con cui i fedeli passano alcuni giorni consecutivi in moschea in raccoglimento durante il Ramadan, ma anche per difendere gli edifici sacri da quello che gli arabi hanno classificato come un “tentativo ‘giudeizzare’ il sito”. A quel punto i soldati delle Israeli Defence Forces sono entrati in azione in risposta ai “disordiniriscontrati nel complesso.

Le immagini delle bodycam degli agenti israeliani all’interno della moschea di al-Qibli mostrano i fedeli a terra percossi con i manganelli e poi ammanettati. I medici della Mezzaluna Rossa Palestinese hanno raccontato a Middle East Eye di essere stati ostacolati dall’esercito israeliano nel raggiungere i feriti, principalmente colpiti da proiettili di gomma e con difficoltà respiratorie causate da gas lacrimogeni e granate stordenti. Nella mattina di giovedì i soldati sono saliti sul tetto della moschea e infrangendo le finestre della moschea ultra-centenaria hanno scagliato all’interno delle bombe sonore, a cui i fedeli hanno risposto con il lancio di fuochi d’artificio, come anche nella notte precedente. La Commissione Palestinese per i Detenuti ha stimato tra i 400 e i 500 arresti nella mattina di mercoledì e almeno 350 giovedì.

La rituale riposta di Hamas e Jihad islamica non è tardata ad arrivare, e da Gaza sono stati lanciati razzi nel sud di Israele, alcuni dei quali sono stati intercettati dal dispositivo antimissile israeliano Iron Dome. Israele ha presto risposto con attacchi aerei a Gaza City e nei campi rifugiati attorno.

Nuove circostanze

La particolarità che approfondisce la riflessione su tali eventi è la cornice in cui si inseriscono quest’anno. Lo Stato di Israele è infatti ancora vacillante in seguito alle proteste che la settimana scorsa hanno portato al congelamento della riforma giudiziaria. Gli eventi di quei giorni hanno rappresentato molto chiaramente lo scollamento che si è venuto a creare tra il governo e la parte liberalista e garantista del Paese, che include le frange di riservisti dell’esercito che si sono rifiutati di presentarsi in servizio in opposizione alla riforma. La disaffezione dimostrata nei confronti del governo da parte di centinaia di migliaia di manifestati è stata parzialmente rammendata dalla decisione del primo ministro Benjamin Netanyahu di rimandare e ridiscutere la riforma, ma la spaccatura non si può certo dire del tutto sanata. Ad alimentare la preoccupazione sulle tensioni pasquali di quest’anno c’è anche l’atmosfera generale di escalation che si respira ormai da mesi in Cisgiordania, su cui il capo della Cia William Burns è arrivato a paventare l’ipotesi di una terza Intifada.

E nuove opportunità

Dirottare nuovamente lo sguardo dell’opinione civile verso i territori palestinesi e il nodo di Gerusalemme in particolare potrebbe rappresentare un nuovo vettore della narrazione di Netanyahu in funzione dell’effetto “rally around the flag”, ovvero “stringersi attorno alla bandiera”. Questo processo si fonda sull’identificazione di un rischio vitale per la sicurezza nazionale proveniente dall’esterno, e punta ad appianare le divergenze interne allo Stato in un’azione che potrebbe essere definita distrattiva. Un nuovo – ma familiare – inasprimento della questione palestinese potrebbe riallineare tutte le componenti della società israeliana dietro a Netanyahu in nome dell’ordine e della sicurezza, pilastri fondamentali della sua linea di governo. Una simile narrazione potrebbe giovare al consenso interno del premier, fortemente compromesso dalle recenti proteste; tuttavia, andrebbe subordinata ad una retorica primaria di mantenimento dello status quo per tranquillizzare anche la comunità internazionale, che ha già reagito in maniera forte agli eventi di queste mattine.

Moschea di Fatih di Istanbul, Turchia. Fedeli turchi sventolano la bandiera palestinese e gridano slogan contro Israele dopo la preghiera del mattino. EPA/ERDEM SAHIN.

Nelle dichiarazioni di queste ore infatti il premier Netanyahu ha privilegiato infatti una narrativa conservativa: “Israele si impegna nel mantenimento della libertà di culto e nella conservazione dello status quo sul Monte del Tempio, e non permetterà ad estremisti violenti di cambiarlo”. Nei suoi personali commenti sugli eventi, il primo ministro ha specificato che “la polizia è stata costretta ad intervenire per ristabilire l’ordine dopo che alcuni estremisti hanno impedito a dei fedeli di accedere al sito”.

Già lo scorso gennaio, in occasione della passeggiata provocatoria del ministro della Giustizia Ben Gvir alla Spianata delle Moschee, il premier aveva ribadito la necessità di preservare la situazione preesistente a Gerusalemme, e lo stesso ha fatto anche mercoledì 5, richiamando alla calma sul Monte del Tempio. Le ostilità di questi giorni rappresentano di certo una difficoltà, ma Netanyahu è un primo ministro navigato che ha già conosciuto circostanze simili, e potrebbe trarne elementi utili alla propria riabilitazione.

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